A parte considerazioni relative a un ritmo cinematografico non proprio rapinoso in entrambi i casi, temi comuni sono la solitudine e la ricerca di sé, di un successo per sé.Lo sfondo rimane quello di una Parigi estiva, sotto il segno del cancro e del leone, appunto. D'altra parte, in questa pellicola Delphine, la protagonista (Marie Rivière), cerca un modo per fuggire dalla città, per trovarsi altrove.
La donna, come Pierre de Il segno del leone, guarda il cielo: ma lo guarda per avere una risposta, non aspetta conferma che nella tenue luce sfuggita al giorno. E poi, in realtà, Delphine guarda il mare, guarda l'aria, guarda la terra e le propongono anche di scrutare l'oscurità. Ma, come per tutto il resto, lei volta il capo.
La protagonista si chiude in un silenzio sdegnoso: rifiuta la carne, rifiuta le nuove conoscenze, rifiuta i consigli, l'astrologia, le sedute spiritiche, segue solo un cammino di briciole verdi: le capita di incontrare per strada delle carte da cui trae auspici, inconfondibilmente corretti. Va e viene da Parigi, in mano del tempo e una vita di cui non sa che fare, tradendo il suo spaesamento a mare, in montagna, al telefono con il suo ex fidanzato invisibile, ai tavoli delle brasserie e in campagna.
Il film si avvale stavolta di una sorta di presa diretta - tecnica che in genere non amo - che conferisce a ogni singola scena una sorta di verità rubata. Se l'improponibile doppiaggio italiano finisce di congelare la naturale freddezza di questa cinematografia, rimane l'impressione di scene basate su idee che Rohmer dilata fino a dar loro una durata compatibile con ciò che ci si aspetta da una sequenza.
La profondità nasce qui dal palpabile irrompere nell'immagine di una donna, Delphine, che sembra di conoscere, una donna un po' scontrosa, lunatica e granitica insieme, un po' chiacchierona come tutte le persone insicure e taciturne con se stesse. Di questo film mi rimarrà per lo meno la sua ombra sul far della sera, ma è un'ombra di vita.