Con l’approvazione in prima lettura da parte del Senato della riforma Boschi, Renzi può prendere una salutare boccata d’ossigeno prima delle ferie estive, mai brevi come quest’anno per la classe politica; una boccata d’ossigeno provvidenziale, dopo il riaddensarsi delle nubi sull’economia degli ultimi tempi. Il premier ha dimostrato (non tanto ai miei occhi, ma a quelli della maggioranza degli elettori) di saper rispettare le scadenze e di avere la forza parlamentare per vincere le resistenze dell’opposizione più agguerrita. Mai si era registrato un blocco così vario nella contrapposizione all’azione di un governo: Lega, M5stelle e Sel si sono appiattiti su posizioni analoghe, hanno strumentalmente puntato sul supposto pericolo di svolta autoritaria e sull’inopportunità di basare le riforme sul dialogo con Berlusconi. Inutile dire che, rovesciando il discorso, dovrebbero spiegare ai loro elettori come mai hanno consentito che l’ex cavaliere diventasse il più affidabile interlocutore di Renzi, vista l’ambiguità con cui loro hanno portato avanti il tentativo di dialogo col governo. La Lega dovrebbe spiegare come mai si è opposta in modo così radicale a una riforma che rappresenta il più lungo passo in avanti fatto dal federalismo nell’Italia repubblicana; il M5stelle dovrebbe chiedersi il perchè, dopo l’evidente bocciatura alle europee del loro oltranzismo, abbiano finito con un salto di qualità del loro stile politico, portando al parossismo il muro contro muro; quanto a Sel, che comunque ha mantenuto un profilo istituzionale superiore, dovrebbe spiegare come può dire di aver fatto polemica sul merito, dopo aver presentato seimila emendamenti, tra i quali quello per il cambio del nome in Gilda del Parlamento.
Sul merito, la riforma del Senato, a mio parere, va nella direzione giusta: il dimezzamento dei tempi parlamentari dovuto al superamento del bicameralismo perfetto, la conseguente riduzione dei costi (che più che dalle indennità, sono causati dalle lungaggini burocratiche), la rete di dialogo tra il territorio e l’esecutivo centrale, di cui il nuovo Senato dovrebbe essere il centro nevralgico. Certo, un simile riassetto della Camera alta favorisce il decisionismo (cosa ben diversa dall’autoritarismo), ma un governo in grado di decidere in maniera rapida e tempestiva è quello che chiede la grande maggioranza degli italiani. D’altronde, nonostante il bicameralismo perfetto, nel 2001 e nel 2008 Berlusconi si è ritrovato nelle condizioni di poter piegare entrambi i rami del Parlamento alle sue necessità, eppure le malconce istituzioni democratiche italiane hanno tenuto. Le ombre della riforma, piuttosto che dalle supposte derive autoritarie, sono rappresentate dal criterio di selezione dei nuovi Senatori che, seppure non possono essere considerati dei nominati (dato che dovranno comunque prima essere eletti nelle elezioni amministrative), rimangono legati a una scelta di tipo verticistico, con la volontà dell’elettorato degradata a semplice indicazione da sottoporre ai vertici del partito. I margini per rendere più influente l’elettorato ci sono tutti, sia agendo direttamente sulla riforma del Senato, attraverso l’introduzione di elementi che rendano più trasparente il criterio di selezione, sia intervenendo sulla nuova legge elettorale, puntando sull’introduzione dei collegi uninominali invece delle ambigue preferenze, in sostituzione delle liste più o meno bloccate.