Magazine Poesie
Lucianna Argentino - L'ospite indocile - Passigli Editori 2012
Leggendo questo ultimo libro di Lucianna Argentino ho dovuto cercare di capire in cosa mi suonasse "diverso" rispetto a sue precedenti prove. Dico subito che la mia affezione per la scrittura di Lucianna è rimasta legata, senza ombra di dubbio, a "Diario inverso" (v. QUI), un lavoro di innegabile rilievo. Ma ricordo anche ciò che lessi di "Mutamento" oppure di "Verso Penuel", l'intensa spiritualità, la vibrazione, la passione anche dolorosamente amorosa che pervadeva quei versi. Dico tutto ciò a proposito di questo suo libro, "L'ospite indocile", non perchè la spiritualità di Lucianna qui sia venuta meno, ma perchè ho trovato un po' depotenziato il rigore e l'ordine complessivo, l'organizzazione dell'ispirazione, l'idea di fondo, il filo narrativo, forse anche lo stesso linguaggio. Diciamo che mi ha dato meno emozioni (per quanto possa essere labile questo concetto) rispetto a quanto ricordavo. Un libro in un certo senso destrutturato, forse volutamente, non solo perchè non presenta divisioni in sezioni (questo non è certo un problema) o l'indicazione al lettore di un percorso, ma perché dà l'impressione di essere fatto di affioramenti di moti dell'animo, di ricerca di momenti epifanici come se si aspettasse arrivare la poesia, di piccole rivelazioni che si fanno attendere, di presenze metafisiche nascoste in occasioni semplici, come se semplicemente avvenissero giorno dopo giorno verso dopo verso, e fosse la semplicità la chiave da ricercare, forse per il sopraggiungere di una disillusione, oppure di un dubbio immanente e ontologico. Può darsi, come suggerisce A.M. Farabbi nel risvolto, che tutto ciò, l'insieme di questi testi anche brevissimi, costituisca un poema, il poema del "vuoto profondo e utile", come quello dell'asola, quello - continua Farabbi - "che abita la tua bocca, la tua poesia, la tua parola". Dobbiamo credere che questa poesia sia abitata dal vuoto? Non lo so, onestamente. Il vuoto può essere - concettualmente - un argomento interessante, ma anche pericoloso. Se assumiamo il concetto, cioè che vi sia - qui - un vuoto "buono", tutto il libro andrebbe letto come un progetto di dire e non dire, come un diradamento dell'ordito poetico, come alleggerimento, omissione, passaggio a uno stato volatile, etereo, in cui la poesia si condensa nel vuoto per precipitazione, si fa parola tra interstizi. Un vuoto in cui anche il linguaggio sembra essere attirato. Intendiamoci, Lucianna ha una padronanza della lingua eccellente, ma è facile registrare una sostanziale differenza con la sua produzione precedente (basta leggere a confronto i testi di "Diario" presenti su IE, che avevo definito compatti, concentrati e concreti), differenza che consiste, a mio avviso, in ciò che sembra un volontario recupero di una scrittura "ingenua" (o se vogliamo innocente: "arrivarono le campane / a siglare l'inizio di maggio / e poi di nuovo la buona stagione..." oppure "Il foglio è altare / su cui concelebro la vita / su cui consacro - questo è il mio corpo / questo è il mio sangue...", o ancora "rientrano nel chiostro serale le nubi / infilano la cruna dei campanili..."). Forse una tensione, in questo diradamento a cui accennavo, verso una lingua disciolta, verso un grado appena un passo più vicino allo zero della scrittura. Ma non è un cupio dissolvi, almeno non nel senso paolino del termine, sebbene si registri in questo libro, a mio avviso, anche una qualche attenuazione dello spirito religioso che è sempre stato sotteso ai lavori di Lucianna Argentino. E' semmai, appunto, la riverberazione in questi frammenti di un dubbio (o forse molti), e a questo proposito sarebbe certo interessante domandarsi chi possa essere l'ospite indocile del titolo. Qualcosa/qualcuno che alberga in noi o ci è accanto ("il nostro stare separati e contigui"), il Dio nominato più volte, il "tu" che certo ha più di una faccia (compresa - credo - quella di Dio medesimo), la scrittura (la parola, la poesia) così tante volte evocata metapoeticamente nei testi, indocile magari perchè a volte sembra "altrui" ("Scrivo di nascosto da Dio / che nella bocca voglio parole mie..."). Insomma, un libro per certi versi discontinuo, con i suoi alti (notevoli) e bassi, in cui come lettore (ma ammetto che può trattarsi di una mera sensazione) mi sono un po' perso, probabilmente perché invece altrove nel lavoro di Lucianna (e mi dispiace tirare ancora in ballo "Diario") avevo scoperto invitanti sentieri, come "un lungo corridoio, che ci è dato percorrere con la curiosità un po' morbosa di chi ha trovato la porta aperta, e si addentra con passo incerto, gettando lo sguardo nelle stanze". Ma un libro certo combattuto (anche dentro la stessa "fonte" poetica, tra il silenzio che "a volte [...] ha la meglio" e la scrittura "concupiscente e casta") e che probabilmente per Lucianna era "necessario" così come è cresciuto. (g.c.)
Non so quale felicità avremmo vissuto,
o quale guancia avremmo offerto all'offesa
se felicità c'è stata, se c'è stata offesa.
Così lo scrivo, ne faccio segno,
per capire come si spiega l'albero la potatura,
il papavero lo strappo
i bambini il tempo e lo spazio:
- dove va la notte quando è giorno?
- mezz'ora è tanto o poco?
O come si spiega il vuoto degli esseri
che ci stanno accanto come un'assenza
o il senso irsuto della vita,
il suo difficile che diventa facile
quando cominci ad amare.
Basta additarci, basta l'ingratitudine
l'aspettarci sempre un segno
e non saperlo riconoscere
non saperci segno. Dammi allora almeno
la capacità di dirlo con parole conosciute,
semplici, quotidiane
come quando chiedo il pane
o un bicchiere d'acqua, ma vanno bene
pure parole un po' sbagliate
come Damiano quando dice «pesa un chilometro».
Dammi allora la capacità
di tracciare piano, giorno dopo giorno,
la mappa del tuo corpo e che sia come quando
l'anima viene alla superfìcie
e si distende sulla pelle.
L'inchiostro scorre
e si rapprende come lava
fa fertile il foglio
fa anse all'ansia
spicca il vuoto alle cornici
ai cornicioni chiede la vertigine
per il salto nel pieno della vita.
Non è che l'ombra del silenzio
questa parola che irrompe
e sgorga necessaria come tutto il bene
che in questo momento è compiuto
nel basso della terra
e si misura ad altezza d'uomo.
Pregano per noi
di materia imperfetta
di sostanza sopraffatta,
bisbigliano novene
in una loro lingua
d'inconciliabile verità.
Pregano loro già stati
loro scrocifissi dal mondo.
a Sergio Pistolesi
Le voci, chiede, avranno
un paradiso tutto loro?
un luogo dove, riposti gli strumenti,
tutte si raccolgono?
Le voci, dice, sai non le parole
che non sarà muto quell'altrove
ricamato di speranza
con fili logori e terreni.
Ma la voce, sai, quel suono
che non ce n'è uno uguale a un altro
dov'è che va?
Scrivo di nascosto da Dio
che nella bocca voglio parole mie
e niente niente
nel passaggio dalla fronte
alle dita alla punta della penna
al suo muoversi sul foglio
per mio sentire altro
per meditato silenzio e pulsare di tempie
per il mio stare accovacciata
presso lo scavo con l'angelo geometra
e la sua corda a misurare
quanta benedizione c'è sulla terra.