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Luciano Benini Sforza: Non è più tempo di parole belle

Da Narcyso

lucianobeniniLuciano Benini Sforza utilizza un linguaggio colloquiale, un estraneamento metaforico dovuto alle fascinazioni,  alle urgenze sociali ed esistenziali di un paesaggio di confine – spesso un porto, un cantiere di mare -.

  Citerei, come esempio delle forze che animano questa poesia,  il testo “Muoversi”. Nella prima parte, vediamo una specie di controfigura dello scarafaggio Samsa – personaggio incosciente del suo stato – e qui invece capace di percepire,  di prevedere gli ostacoli che si impongono all’essere, abitatore di un mondo imploso dentro i propri stessi confini:

Mi muovo bene al buio

solo nella mia stanza.

Nel cuore della notte

     perimetro

in pigiama le distanze,

schivo la cassapanca

tirando dritto fino all’uscita.

Non inciampo. Non sbatto,

vado millimetrico

in porto: in primis, coi

piedi, le ginocchia

   e le venti dita.

  (E poi, in funzione di un coinvolgimento:)

Del resto, non so muovermi

così bene. Patisco le intermittenze,

i vuoti misti ai pieni,

   la vita

data in pasto a tante e diverse

lenze.

   Ma questa storia

è anche tua, lettore:

     un andare a tentoni,

a frammenti,

   a vista,

in assenza di vie asfaltate,

di continue

   piste.

  Nell’ambiguità dello sguardo, del resto, si gioca tutta la nostra percezione, il rischio di una visione che si allontana dalle cose: “Intanto, l’immagine/è una pellicola mobile/che tutto assorbe. Un/buco nero…”, p 24.

   A baluardo di questo rischio, la poesia, oltre che osservare, ragiona, ma per fare questo ha bisogno di rallentare la velocità dello sguardo – la velocità è la voce del potere -; e anche di coltivare una calda presenza, un lavorio incessante. Ci sono, infatti, immagini ricorrenti di api e di miele in questo primo gruppo di testi, di pienezza e di turgore, incuneate in una realtà che mostra i suoi vuoti, le sue crepe di silenzio: che è il dramma quieto di un intero paesaggio, profondamente antropomorfizzato, tanto da sembrare metafisico  per mancanza di speranza, paradossalmente distante. Si muove, in questo paesaggio, l’uomo moderno,  accolto con indifferenza dalla Storia e dalla memoria come una presenza qualsiasi, un relitto: “Girano sulle strade/ ombre credute vinte,/vite affrettate,/truppe senza divisa/ e untori con pantaloni sporchi,/ciabatte/ e merce venduta/ per quattro soldi…”, p. 38.

 Nel quadro di questa capacità di osservare l’altro, la sua consistenza di animale derelitto, Luciano Benini Sforza dota la poesia della forza pacata della denuncia, di un dolore condiviso, pur “senza muovermi dalla mia tastiera”, dicendoci quindi senza ipocrisia che, oggi, nemmeno la pietà ci salva dal disastro: la pietà, piuttosto, ci lascia spaesati, mentre gli uomini, le cose, la storia, procedono verso il loro destino di reliquie; compresi noi stessi: “Sono/ un amico, una metà,/una reliquia/di cui/potresti fare comodamente/senza.”

  Gli umani sono tulipani coltivati in fila dentro una serra, che forse torneranno ad esistere cercando “il punto nella serra/o nel tempio/che suona vuoto (…) finchè/saremo/solo esseri nudi,/nati,/gesticolanti e nuovamente al mondo”, p.44; noi tutti, abitanti di una guerra quotidiana, come tutti “solo feriti e bendati (…) Credendo magari di accedere/e spegnere/col telecomando in mano/il resto del mondo”, p. 46.

  Se, insomma, la pietà non ci salva, rimane l’eloquenza del dire una denuncia sommessa, un trasfigurare la realtà e renderla più lucida, almeno nelle parole. “Ombra profonda e svanita,/uomo che inneschi/fuori di te/una potenza/infinita e brulla”, p. 47. Ma si veda anche la prosa “Tribù”, chiaro riferimento a un’ istopia moderna, specchio al contrario del modello utopico di una città ideale.

  Nella seconda sezione del libro “Altre traiettorie”, leggiamo molte poesie d’amore, innestate tutte nella forza vitale e naturale che tale sentimento provoca, ma anche con la leggerezza dell’angelo che suggerisce e sorride,  in presenza costante dell’elemento liquido  e mobile qui rappresentato dalla riviera adriatica, dove i corpi a volte rilucono del loro  splendore e in questo modo proclamano la pienezza dell’esistenza.

  L’amore che va e viene, con i suoi teatrini e i suoi tremori, fino a quando finisce; fino a “un messaggio civile/per il compleanno./ O le parole incise/ su qualche foglio,/le notti insonni…”, p.70. Ma anche l’amore in forma di vita che ritorna: “ciò che importa/è vedere ancora il dopo,/la riva/per un’altra scelta”, p.73.

  Ma anche amore opposto a disarmonia, quindi realizzazione del suo lato più sprovveduto e necessario: e, cioè, il parlare agli amati, gli allievi, gli allevati da segnare col gesto dell’ indice che indica non la strada ma il compito, il gesto da compiere a sua volta; per esempio nel mostrare e comprendere il dolore dei lavoratori che salgono sulle impalcature come angeli, gente che viene da lontano, che “forse pensano/ a donne lontane, alle bollette più care,/ alla fame vinta. (…)/ E tu non sai nemmeno/ cosa rispondere,/ da cosa incominciare”, p. 78; tutta la precarietà della condizione umana, di chi ha un lavoro a scadenza, di “uno fra i tanti/dispersi o in cammino”, “il precario/che scende dal letto,/ si veste in fretta,/ e poi beve un caffè,/chiude la porta,/il giubbotto, ma non l’ombra/ vicina o la fitta che sento/ nella luce sporca/della speranza…”, 80.

  Eppure in questa poesia, c’è la tentazione dello scomparire, dell’uniformarsi al grande equilibrio panico; per scelta, disillusione, per sacrificio o dono: “Divento bosco, nave che brucia. In quei momenti vorrei essere masso, sabbia, numero. O una delle orme lasciate una mattina tiepida da un turista che passeggia coi bambini e il cane, sulla spiaggia quasi deserta.” p. 7; “A volte essere/un pino/sospeso nella neve,/un gabbiano/schiacciato sotto la bora/ che passa e scrosta/la sabbia/ come un’icona”, p.86.

  Dunque, questa poesia, apparentemente calma e meditativa, sembra reggersi pericolosamente sulle linee di faglia di una implosione/esplosione in cui le forze oppositrici che evoca – libertà desiderata e distonie sociali – chiedono uno sbocco o nel senso di un tracollo o di un bruciarsi nella luce: ” É solo/ questione di tempi,/ i vetri delle cabine voleranno/ dal canale/come vittorie senza ali,/ polvere e sabbia si mescoleranno/ insieme alla pelle, agli occhi/aperti sul corpo…”, p. 82; “Poi le briciole esplodevano in alto con le grida, con la vita più indifesa…”, p. 85; “Imploso. Con le spalle/ al muro”, p.84; “Galleggiano/uomini/in tuta e giubbotto fosforescente/a gruppi sparsi,/punti luminosi di galassia”, p. 87…

“Io non mi do pace, non riesco/ più nemmeno a guardarlo/a lungo questo lembo sabbioso/ davanti al mare. In pieno fermento./In mutazione.”, p. 87.

  L’etica del “io non mi do pace”, certo, non libera la coscienza della poesia dalle sue responsabilità, dal suo canto frastornato in mezzo al frastuono del mondo; quantomeno, però, sembra augurarsi questo libro, che la parola si senta assediata, e assediato l’uomo che scrive poesie, “solo abbagliato/ come un ladro o un clandestino/sorpreso di notte dalle ronde,// dall’assalto senza fiato dei motori”, p. 88.

Sebastiano Aglieco

 

***

Non è più tempo

Non è più tempo di parole belle,

i canti sono quelli di giovani ubriachi

e di imbarcati

   stanchi a mezzanotte,

le gru da terra stanno appoggiate al cielo,

ma sembrano croci

   alte o stampelle.

E i pini avanzati

si strozzano fra le cisterne,

col filo dell’erba che corre

   sulle rive

e a vederlo si smarrisce ovunque.

***

Per strada

La strada che vola ai bordi del campeggio

corre su una vecchia duna,

lì hai la vertigine del basso,

degli uomini piccoli

   e delle loro cose,

quel senso per cui una buca,

un’auto che sbanda,

una raffica in un temporale estivo

può cambiare in un secondo la tua storia,

i nostri occhi

   fermi al vento come

una tenda, un tavolino all’aperto

con le sue sedie, dove pranzavi anche tu

insieme ai tuoi cari,

era un giorno caldo simile a questo,

in un cerchio spezzato che si fa corto,

quasi un respiro,

ricordo e carne che non vuole andare.

***

Prospettive umani

Tu, quando a un’ora non definita

capiterai in una città come la mia,

replica nè migliore

nè peggiore di tanti altri luoghi

più grandi o sagomati

da un’orma di automobile

o di betulla

   nel bosco

occidentale,

ti sentirai un pendolare qualunque.

Un cittadino. Uno sposo.

 Ma anche uno

   senza copione,

una macchia di sporco, di colore.

Un uomo che fugge.

O l’ ombra di uno straniero.

***

Un altro po’ avanti

( a Rosetta Berardi)

Ora

è già notte fonda, siamo passati

un altro po’ avanti,

abbiamo parlato ancora

nella mente, nella sirena che avvisa

le navi al confine della lingua

fraterna, amata che è il mare

qui sulla costa.

E io

   sono dentro il guscio della mia stanza

e sono lì con te, muovo

il respiro della tua arpa gialla,

seguo il vuoto bianco

dell’ aquilone che hai fermato,

ma sono soprattutto soglia,

filo di luce, foglia

che entra e vola nel tuo quadro,

e forse anche tu, Rosetta, in me.

***

Illusione

Qui non c’è un primo caduto

   in guerra

e nemmeno un ultimo.

Solo feriti e bendati,

tanti che camminano

da una strada all’altra

fischiando un motivetto all’aria,

tenendo una borsa, una sigaretta

accesa

o un giornale sotto il braccio.

Credendo magari di accedere

   e spegnere

col telecomando in mano

il resto del mondo.

***

Comunque passo e ripasso le frontiere,

sono un mercante,

un nomade, un impuro,

    un uomo

incerto sul suo prossimo futuro.

E la catena d’oro

che porto al collo

   m’è scesa dentro.

***

Anche un poco

(Affacciata all’acqua del canale e al mio pensiero, ricordo una famiglia ben coperta. Gennaio: una domenica mattina fredda ma senza traffico, l’ideale per dare tutti insieme cibo ai gabbiani. Poi le briciole esplodevano in alto con le grida, con la vita più indifesa, e toccavi le ali e la gioia nel pulsare delle dita).

***

Sponde della velocità

Valerio la detesta la velocità, ma ci sta dentro. Dentro a un grosso centro commerciale in periferia, dove corre da una merce all’altra, ape senza fiore, senza sciame. Palla da una sponda all’altra del bigliardo. Nodo di corpo e scintille.

“La velocità penso sia la voce del potere”, dice con le mani inchiodate al volante, incuneandosi in mezzo alla pineta, alle cose. Agli argomenti che afferra uno dopo l’altro e getta nella luce del pensiero. Le parole intanto gli vanno a mille, come il tempo in cui discute di poesia, cerca il sale nascosto negli oggetti,

   e vive.


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