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La storia, tratta da un omonimo dramma di Victor Hugo, è quella di una donna che incontra il figlio troppo tardi per poterlo salvare e riceverne l'attesissimo amore. (Prologo) Lucrezia (Mariella Devia) segue il suo adorato Gennaro (Marcelo Alvarez) fino a Venezia, insospettendo suo marito Alfonso, duca di Ferrara (Michele Pertusi). Il loro incontro è però guastato dalla presenza dei compagni del giovane, che riconoscono la Borgia e la umiliano pubblicamente, in particolare sotto la guida del caposquadra Maffio Orsini (personaggio en travesti, Daniela Barcellona); la donna, così, torna a casa sua, dove la aspettano ben più crude prove. (Prima parte) Alfonso, pensando che si tratti di una sbandata della notissima e pericolosissima moglie, riesce con l'inganno ad architettare, col famigerato veleno dei Borgia, la morte di Gennaro, reo confesso di aver cancellato la B dal cognome della famiglia, rivelandone l'orgia nascosta. Quando Lucrezia prova a salvare suo figlio (che ancora - non si sa come - non ha capito di esserlo), Gennaro tarda a prendere l'antidoto al veleno, sebbene alla fine ceda. (Seconda parte) Nonostante Gennaro si sia proposto di partire, l'incontro con Maffio Orsini, il suo più caro amico, gli fa cambiare idea: il giovane non sa sottrarsi al patto di fedeltà e i due si recano entrambi a una festa dove sono attesi con gli altri quattro compagni. La festa, però, si rivela una trappola ad opera della stessa Borgia, che vuol vendicarsi dello scherno di cui è stata vittima a Venezia. Anche Gennaro, dunque, ingoia un veleno che era destinato ad altri e stavolta rifiuta un antidoto che è solo per lui. Muore così con gli altri e Lucrezia dichiara che con lui finisce anche la sua vita.
Nella Lucrezia Borgia, il soprano deve sfoderare gli accenti gravi dell'odio e della vendetta, combinandoli con la più accesa e materna espansione lirica. Anche a distanza di anni dal primo ascolto, trovo che Mariella Devia si rivela una protagonista eccezionale: la cantante ligure non si distingue per un canto troppo emotivo e caldo, svetta semmai per la bravura, il controllo della voce e la bellezza delle variazioni. Accanto a lei, il Gennaro dell'argentino (di Cordova) Marcelo Alvarez è forse un po' troppo febbrile, né mi piacciono i suoi attacchi accesi e poco cauti, sebbene il timbro sia bello e il canto davvero preciso ed espressivo. Eccellente la Daniela Barcellona nel ruolo di primo piano di Maffio Orsini: nel corso dell'opera sembra che la cantante triestina confermi la sua presenza scenica sicura e agille, perfino sbrigliata nell'insieme. Ottimo anche l'Alfonso dell'emiliano Michele Pertusi, che ha confermato le sue doti interpretative (che ho apprezzato anche dal vivo) in una parte forse non originalissima, ma molto impegnativa sul piano vocale. Il basso parmense ha potuto portare in scena la sua esperienza scenica, in particolare vi ho sentito echi precisi del suo Don Giovanni.
E del capolavoro mozartiano, che io considero l'Opera, c'è ben più di una risonanza perennemente infissa nella mia memoria: il finale della seconda parte ne è una chiara ripresa, sia pure diversamente elaborata, con la morte che arriva a un banchetto, citando uno scambio di inviti a cena. La drammaturgia musicale porta l'ascoltatore proprio in quella direzione: in cinquant'anni circa, il Don Giovanni si era consolidato come uno tra i titoli più celebri e citati del teatro (e nel film di Milos Forman, Amadeus, ve n'è appunto una salace e significativa parodia): è proprio la musica, con la sua solennità improvvisa, i suoi giochi di archi e le sue tensioni interne a indirizzarlo. D'altra parte, oltre alla direzione corretta ma calligrafica di Renato Palumbo, che non esalta qui sul piano orchestrale, il librettista Felice Romani, nella sua introduzione, opera un suggestivo e proficuo, diverso confronto tra la Lucrezia Borgia e Il re si diverte di Hugo (da cui Verdi trarrà il Rigoletto una ventina d'anni dopo): nell'uno e nell'altro dramma, il deforme (fisice e morale) viene in qualche modo riscattato dalla genitorialità dei protagonisti. La Lucrezia Borgia, in piena era belcantistica, conferma dunque la sua vocazione di opera capace di raccogliere gli stimoli del passato e di anticipare le tendenze drammaturgiche del futuro.
Non so quanto la Lucrezia Borgia dell'opera di Donizetti possa essere riscattata dal suo ruolo di madre. Sembra che questo non cambi assolutamente nulla in lei in termini di umana pietà: la donna rimane tutto sommato truce e vendicativa, una minaccia nel crocevia del Rinascimento italiano, così come lo vedeva il nostro Romanticismo. Nonostante i tentativi di riabilitazione, Lucrezia Borgia è e rimane personaggio problematico, al quale note dell'opera e la scelta di un registro canonico per una protagonista non riescono a conferire una dignità meno controversa. L'esemplare costruzione della prima parte, nella parte centrale dell'opera ne valga da esempio (scena 6 e sgg.): il duetto con Alfonso (Soli noi siamo. Che chiedete?) diventa terzetto con l'arrivo di Gennaro (Quai so darne grazie...) e poi di nuovo duetto quando Alfonso si allontana. Lucrezia si trova lacerata tra il suo ruolo di regnante, rampollo di una delle dinastie più facoltose e potenti dell'epoca e moglie di un'altra non meno celebre famiglia, e in quello di madre. In questo doloroso bivio è bene lasciare che trovi la sua strada Lucrezia Borgia, nella memoria pubblica delle scene: là dove la storia non sbroglia la matassa, che almeno venga in soccorso la fantasia dell'arte.
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