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"Ludwig van Beethoven e la Spiritualità"

Da Risveglioedizioni
Risveglio Edizioni, Libri, Spiritualità, Meditazione, Medicina, Cosmologia, Arte, Filosofia, Ufologia, Federico Bellini, Ambra Guerrucci, Osho, TV Molto si è scritto sull’imponente ed innegabile trasformazione stilistica subita dalla produzione musicale di Beethoven nell’ultimo decennio di vita del compositore. Si è dibattuto molto sulle cause da cui è stata generata la florida vena compositiva che ha dato origine a una serie ininterrotta di capolavori, che per la continuità dell’ispirazione e la perfezione formale costituisce un unicum in tutta la storia della musica...
Scaturito da fonti intrinseche ed esterne, l’ultimo periodo creativo beethoveniano (all’incirca corrispondente al suo ultimo decennio di vita, Beethoven morì nel 1826) appare profondamente radicato nel precedente quinquennio, del quale rappresenta un naturale proseguimento evolutivo privo di soluzione di continuità, pur se non di sconcertanti novità sui piani formale ed espressivo, che mai prima d’ora erano stati tanto legati, e risultano ormai per così dire indistinti e quasi sovrapposti. Come hanno sottolineato le analisi stilistiche del filosofo e musicologo Theodor Wiesengrund-Adorno, lo Spätstil beethoveniano non è scindibile nelle sue componenti polifonico-oggettiva ed espressivo-soggettiva; si può piuttosto delineare come caratteristica principale del Beethoven maturo un progressivo e inesorabile allontanamento dal piano dell’apparenza. Altra tendenza del tardo Beethoven è quella, in particolar modo in campo pianistico, a non distribuire più i significati nell’arco temporale della composizione. La dicotomia tra dimensioni esteriori e interiori, e quindi appunto lo sviluppo del tema dell’allontanamento dall’apparenza, appare evidente in molte pagine mature (primi tempi delle Sonate opp. 101 e 109, Bagatelle opp. 119 e 126). Tuttavia, l’ultimo periodo non è una rinuncia alla monumentalità, basti pensare alla Nona Sinfonia, alla Missa Solemnis o alla Sonata op.106 für das Hammerklavier; il vocabolario retorico di Beethoven conobbe anzi nell’ultimo periodo una notevole espansione. L’angosciosa sordità, divenuta ormai totale, separandolo completamente da una concezione equilibrata del mondo, “gli concesse d’introiettare nella poetica del suono le percezioni amplificate della vita, il loro isolarsi dalla contingenza per diventare lucida analisi della realtà” (Archimagazine.com, Il gorgo del nero di Flavio Arensi). È quindi con estrema urgenza che Beethoven iniziò in questo periodo, in seguito a un costante peggioramento delle sue condizioni di salute, a prendere piena coscienza della propria mortalità. Dalla consapevolezza dell’impossibilità del compimento della propria impresa creativa derivò un’ansia compositiva connotata da una lugubre inquietudine. L’arte assurse ad antitesi della vita: Beethoven si trovò di fronte a due alternative: o proseguire nel suo impegno creativo, addirittura alzando la posta in gioco nelle ormai consuete sfide artistiche, o trascorrere il tempo restante della vita terrena con l’unico scopo del piacere personale. È superfluo aggiungere che Beethoven optò per la seconda alternativa, ingaggiando una vera e propria lotta contro il tempo. Essa comportò l’eliminazione di tutto ciò ch’egli riteneva superfluo, compresa l’eventualità di un matrimonio e le rare e incostanti manifestazioni di calore umano in un’interazione sociale che a partire da questo momento si sarebbe dimostrata sempre più difficile da gestire: Beethoven si ritirò in una solitudine che non sembra eccessivo definire monastica. Per giustificare la sua scelta, egli si pose alla ricerca di precetti letterari che motivassero il suo allontanamento dall’umanità. Da sempre avido e accanito lettore (in una lettera scritta nel 1806 ai suoi editori Breitkopf e Haertel scrive: “Senza presumere di possedere una vera erudizione, io mi sono sforzato sin dall’inizio di comprendere il pensiero dei migliori, dei più saggi di ogni tempo. Vergogna all’artista che non considera suo dovere spingersi almeno così lontano”, da S. Cappelletto, Beethoven, la vita e l’opera, ed. Newton 1986), Beethoven intensificò enormemente nell’ultimo periodo la fruizione di opere letterarie: oltre a citazioni dell’Iliade del cieco Omero, da sempre “fonte d’ispirazione per il compositore sordo” (Maynard Solomon, L’ultimo Beethoven, ed. Carocci 2010), sul diario di Beethoven (pubblicato a cura di M. Solomon dalla fondazione della Beethoven-Haus Bonn) si possono leggere estratti dall’Inno a Narayena di sir William Jones, poema di carattere vedico sulla catarsi dell’anima del poeta, elevata alle massime altezze dell’estasi. Nella musica Beethoven trovò una fortezza inespugnabile, un rifugio dal deperimento e dalla mortalità, un estatico luogo d’approdo all’atemporalità, una via per raggiungere l’assoluto. Le sfide creative raggiunsero vette incommensurabili. Compose una serie di Sonate con cui costruì un mondo estraniato, basandosi sullo studio retrospettivo di opere di Bach e Händel e, dando contemporaneamente adito a tendenze moderniste, combinando stilemi neobarocchi e la dominazione di una forma di inusitata complessità con la capacità di sondare le più recondite profondità dell’animo umano, ove il flusso di scorrimento del tempo appare in qualche modo “alterato”, se non addirittura assente. Compose poi le Variazioni su un tema di Diabelli: per citare Maynard Solomon, la descrizione di un “viaggio devozionale […] – una Divina Commedia in note”. Dopo aver unito nella Nona Sinfonia musica e linguaggio, tentò con l’eruditissima e monumentale Missa Solemnis di spezzare le barriere fra le religioni, alla ricerca di un denominatore spirituale comune. Un’immensa quantità di composizioni (compresa un’ouverture orchestrale sul nome BACH) rimase allo stato di abbozzo, ma i capolavori completati, che si concludono con la splendida serie degli ultimi, spiritualissimi quartetti per archi, riescono a farci concepire l’ansia creativa e la ricerca dell’assoluto che animarono Beethoven nel suo ultimo periodo di vita. Determinato il contesto in cui ci muoveremo, siamo pronti per iniziare il nostro viaggio attraverso il tratto forse più saliente dell’ultima produzione beethoveniana: la spiritualità. I –  I gradini del tempio È significativo che ognuna delle fasi creative di Beethoven tragga inizio dal mondo espressivo del pianoforte, strumento che più di ogni altro ne accompagnò l’intero periodo di attività compositiva (dalle Kurfürstensonaten, composte a dodici anni, alle Bagatelle op.126, ultimate a tre anni dalla morte). A partire dal 1816 il pianoforte, accantonato negli anni precedenti in seguito al dispiegarsi di un’impareggiabile fioritura sinfonica, viene però a occupare una posizione di primissimo piano nella nascente ultima fase creativa di Beethoven. Le Sonate opp. 78 e 90, capolavori dell’intimismo beethoveniano, con la loro accentuatissima tendenza a una sublime Heimlichkeit, avevano condotto la seconda maniera beethoveniana a ridosso dei suoi estremi confini. Il lavoro successivo di Beethoven in campo pianistico, la Sonata in la maggiore op.101, foriera di novità straordinarie, a dispetto del suo carattere fortemente problematico, tumultuoso e orientato a un certo grado di sperimentalismo, non rappresenta una brusca rottura con le opere precedenti; al contrario, come ha fatto notare il pianista Andràs Schiff, il primo tempo della nuova Sonata si pone come naturale proseguimento dell’ultimo tempo della precedente (op. 90,) della quale fa proprie e sviluppa le “conquiste espressive”. L’Allegretto di apertura, dal carattere vagamente preludiante e improvvisatorio, sottolineato dall’indicazione in partitura “mit der innigsten Empfindung”, che ritroveremo anche nella Sonata op. 109, “esordisce come un foglio d’album, come un preludio o un Lied: niente esordio perentorio, ma discreto, quasi la musica fosse già incominciata dentro l’animo di chi suona” (Giorgio Pestelli, Programma di sala del Concerto dell’Accademia di Santa Cecilia; 13 maggio 1994, Maurizio Pollini pianoforte). Nella Sonata op. 109, tutto ciò sarebbe stato ripreso e ulteriormente perfezionato da Beethoven, e l’esito sarebbe stato un’opera ancora più ripiegata verso l’introspezione. Analogamente a quanto era avvenuto nell’op.78, la dualità fra principi oppositori identificabili nei due temi, tanto cara al Beethoven della prima maniera, è scomparsa, lasciando spazio a un “complesso tematico unitario dal lunghissimo respiro lirico” (G. Carli Ballola, Beethoven, Edizioni Accademia, Milano 1977, p.167), a un’atmosfera preromantica dal sapore che oserei deinire preschumanniano. In questo primo tempo inizia inoltre a delinearsi una concezione di dolcissimo ideale sonoro non più dipendente dalla tastiera, bensì da ricercare con una “tecnica raffinata e sofisticata” (Piero Rattalino, Storia del pianoforte, Il saggiatore, Milano 2003, p.73). Elementi di novità sono presenti anche nella posizione del rapido e aspro Vivace alla marcia, in cui riemerge il tormentoso fantasma contrappuntistico. Un tempo lento dal carattere patetico che nella seconda parte riprende fugacemente il tema dell’Allegretto è seguito dal finale, un Allegro di Sonata combinato con elementi rigidamente contrappuntistici, secondo un procedimento mutuato dall’ultimo Mozart (si pensi alle Sonate K 533/494 e 576, o all’ultimo tempo della Sinfonia Jupiter). Da questa creazione sperimentale, forse non perfetta sul piano estetico-proporzionale, emerge un’ossessione per gli stilemi di un passato ormai tramontato (essenzialmente la fuga e la variazione), caricati di un significato affatto nuovo: l’elaborazione contrappuntistica costa a Beethoven uno sforzo eroico in termini di energia e assurge a lotta disperata che ha come esito liberatorio il trionfo dello spirito; quanto alla variazione, si tratta della forma più congeniale a Beethoven per trasfigurare il tema, il sensibile, e sondare abissi e recessi inesplorati dell’animo umano. L’utilizzo di tali stilemi è presente in più larga scala nella Sonata successiva, l’immensa op.106, “Große Sonate für das Hammerklavier”, primo testamento spirituale del compositore, nata in circostanze disperate durante la tormentosa vicenda giuridica per la tutela del nipote Karl. In un periodo tanto amaro si verifica ancora una volta la trasfigurazione della sofferenza nell’adempimento di una creazione monumentale. L’incremento della densità del tessuto musicale è, rispetto all’op.101, di notevole entità, e trova sfogo nei movimenti estremi. Un primo tempo monumentale, impetuoso ed eroico, di grande difficoltà esecutiva e segnato da numerosi contrasti dinamici e uno Scherzo che “ci colpisce, nel dialogo, con le sue canzonature, nella danza, con i suoi tranelli” (D. Tovey, A companion to Beethoven’s piano sonatas, Londra 1931) sono seguiti dall’Adagio Sostenuto, creazione di vertiginosa importanza, in forma sonata con ripresa variata. L’Adagio è in fa diesis minore, per eccellenza tonalità della disperazione; ma dopo poche battute, lo spostamento dalla dominante (do diesis minore) al modo napoletano e alla tonalità di sol maggiore, illumina la pagina di consolazione spirituale. Si tratta dell’unico punto di tutto il tema in cui la disperazione è attenuata, se non annullata, dalla potenza superiore di uno spirito creativo indomito (vedremo la presenza dell’unicità anche nell’Arietta dell’op.111, in cui, in più di un quarto d’ora di musica, si lascia un’unica volta la tonalità d’impianto). Nella prima parte dell’Adagio la scrittura assume la semplicità parlante di un inno, mentre più tardi lo strumento interviene con “tutte le corde” e dà voce a una melodia fiorita che riprende da un lato con ritardi e trilli tipici stilemi della letteratura barocca, ma pare tuttavia anche un’anticipazione del cantabile fiorito sviluppato un decennio più tardi da Chopin sotto l’influsso del belcanto italiano. Dopo la breve sezione di sviluppo, Beethoven scrive una ripresa variata, che trasfigura la prima immagine sonora, scavando oltre la percezione del sensibile (che può trovare il suo equivalente nel tema). Un’ultima curiosità: l’allievo Ferdinand Ries ci ha tramandato che, quando la Sonata era già stata ultimata da mesi e stava per essere stampata, Beethoven inviò all’editore una battuta da aggiungere all’inizio dell’Adagio. Erano due sole note, ma tali da modificare totalmente il significato di ciò che segue: come fu meravigliosamente detto, i gradini del tempio. Il movimento successivo riprende l’elemento contrappuntistico, vera e propria ossessione per il tardo Beethoven, ma le proporzioni mastodontiche di questo finale sarebbero state uguagliate solo dalla Große Fuge op. 133. Si tratta di una “Fuga a tre voci con alcune licenze”, preceduta da un mistico Largo introduttivo, i cui accordi sono quasi una raffigurazione sonora della Genesi (per Ferruccio Busoni un esempio di Ur-Musik); l’atteggiamento di Beethoven, in questa pagina, ma in generale in tutto l’ultimo periodo, caratterizzato da una febbrile ansia di far parlare la materia sonora, è, come ha notato G. Carli Ballola, “sostanzialmente antitetico a quello del Romanticismo, che vagheggiò invece di una poesia liberata dalla razionale determinatezza della parola e celebrò l’illimitata indeterminatezza dell’espressione musicale” (G. Carli Ballola, Beethoven, Edizioni Accademia, Milano 1977, p.171). Dal magma in ebollizione del Largo scaturisce, dopo una raffica di accordi e tre trilli nel lacerante registro acuto (un vero e proprio urlo se suonati su pianoforti dell’epoca, dal timbro relativamente aspro), la Fuga. Per molti anni pedanti teorici indagarono l’effettivo significato delle famigerate licenze, in base alle quali molti convennero sul fatto che quella dell’op.106 non era considerabile una vera e propria Fuga. La soluzione al problema fu posta da un geniale dilettante (almeno in questo campo): Thomas Mann scrisse in Doktor Faustus, lavoro mirabile fra l’altro anche per le acute analisi musicali, le seguenti parole: “gli immani sforzi di Beethoven per dominare la fuga furono la lotta di un grande dinamico e suscitatore di commozioni al fine di raggiungere la forma freddamente artistica del tempo di sonata, la quale in un al di là delle passioni, rigoroso, altamente astratto, governato dal numero e dalla sonora divisione del tempo, si è buttata in ginocchio a lodare Iddio, ordinatore del cosmo dalle molte vie”. Sempre in Doktor Faustus leggiamo inoltre che “in questo modo di trattar la fuga si può notare quasi un odio e un desiderio di violentarla”. Non ci sarebbero parole migliori per descrivere il tormentato processo compositivo (assimilabile a una lotta contro la complessità immane della forma, la cui conclusione consiste nel trionfo spirituale del compositore) che porta Beethoven alla fine di questa Sonata a varcare definitivamente le porte del clima trasumanato delle ultime composizioni. II – Il testamento sonatistico Durante un periodo di villeggiatura estiva a Mödling, Beethoven terminò la composizione di un’altra Sonata, (la Sonata in mi maggiore op. 109) già abbozzata insieme ad altre tre nel corso dell’anno precedente, alle quali è accomunata da affinità stilistiche, oltre che da un’ispirazione unitaria. Queste tre Sonate presentano un nuovo tipo di fisionomia strutturale, che si esprime attraverso una disposizione rivoluzionaria dei tempi. Già con la Sonata op. 53 lo schema abituale della Sonata classica era stato stravolto, dando luogo a una ristrutturazione radicale, in cui due Allegri monumentali erano collegati da una breve e pensosa Introduzione. Beethoven agì nelle ultime Sonate ancora a livello strutturale, spostando il baricentro espressivo della composizione sul Finale, che è preceduto, nella prima Sonata, da due tempi di concisione straordinaria; l’esito è un’asimmetria di strepitosa novità. I primi due tempi (un movimento dal carattere vagamente improvvisatorio, strettamente imparentato con l’Allegretto dell’op. 101, e un Prestissimo di temperie preschumanniana ed eccezionale nitore contrappuntistico) non sono che la preparazione al Gesangvoll, mit innigster Empfindung, primo grande esempio di recupero spirituale dello stilema del tema variato nello Spätstil beethoveniano. Il tema, Sarabanda, dall’inestimabile purezza d’un inno di semplicissimo arco armonico, viene smaterializzato e sublimato in sei Variazioni. Nella prima Variazione Beethoven dipana dal tema una melodia che sembra aver perduto ogni scoria di materialità; un frequente uso di appoggiature conferisce alla Variazione un carattere che è stato paragonato a quello di una Mazurca di Chopin (Martin Cooper, Beethoven, l’ultimo decennio, ERI, Torino 1979, p. 213). Degna di nota è pure la seconda Variazione, dalla cui scrittura emerge il tema quale proprietà in risalto, allo stesso modo del disegno in un mosaico. La suggestione visiva della quarta variazione, in cui una figurazione è scambiata fra le diverse voci e i diversi registri della tastiera, indusse von Bülow al famoso paragone con la descrizione del movimento delle potenze angeliche nella prima parte del Faust goethiano (vv. 449-450): Wie Himmelskräfte auf und nieder steigen Und sich die gold´nen Eimer reichen! Questo universo espressivo cede il posto a una fuga a tre voci che pare quasi un’anticipazione della Missa Solemnis. Ma è il pulviscolo multicolore dell’ultima Variazione il massimo motivo d’interesse di questo movimento: un pedale di tonica si intensifica in un trillo misurato, che a sua volta lascia spazio a un trillo libero, sul quale si levano, nel registro acuto, splendenti frammenti del tema. L’esito coloristico di questa rarefazione estrema del tema, cui si unisce il trillo come arricchimento del tessuto timbrico, può essere visto come un’intensificazione dell’innovativa scrittura pianistica della Sonata op. 53, ed è pura magia. Dopo la sesta Variazione il tema non ritorna inalterato: leggeri raddoppi di ottava gettano un’ombra crepuscolare di struggente commiato sull’angelica purezza del tema. Martin Cooper ha scritto a questo proposito le seguenti parole: “che Beethoven avesse associato o no nella sua mente il carattere etereo, cristallino di queste ultime pagine della 109 con quell’analogo distacco dal mondo terreno proprio, ad esempio, della Missa Solemnis che stava componendo nello stesso periodo, in ogni caso è innegabile la spiritualità di inno che caratterizza il tema quando alla fine riappare nella sua forma originale, suscitando nell’ascoltatore lo straordinario ricordo della distanza percorsa nello spazio, relativamente breve, di queste sei variazioni”. Su un piano radicalmente diverso si pone la successiva Sonata (op. 110), composta nel corso del 1821, anno segnato da profonda disperazione, dovuta ai conflitti con il nipote Karl, all’aggravarsi delle condizioni di salute del compositore e alle notevoli difficoltà economiche. Mentre nelle due precedenti Sonate la voce dell’autore era stata neutralizzata in nome della ricerca di valori musicali assoluti, qui è il sentimento a dominare la struttura formale. Il primo tempo, Moderato cantabile molto espressivo, ci introduce in un mondo etereo, dall’armoniosa semplicità caratterizzata da un equilibrio armonico che è senza dubbio da annoverare tra le grandi conquiste stilistico-spirituali dell’ultimo Beethoven. È interessante notare che Beethoven riesca nell’op. 109 e nell’op.110 a conseguire la stessa intenzione, ovvero quella di creare un’atmosfera di remota ed eterea spiritualità, sfruttando in modo quasi antitetico le risorse offerte dalla tastiera: nell’op.109 con il massimo grado di elaborazione, nell’op.110 con il massimo risparmio. Come già nell’op.109 e come in seguito nell’op.111, Beethoven fa spesso suonare le due mani dell’esecutore a una distanza superiore alle quattro ottave, come a simboleggiare due opposti, la luce e l’ombra, il cielo e la terra, l’apollineo e il dionisiaco. Questo primo tempo improntato a un carattere di amabilità dalla semplicità disarmante è seguito da uno Scherzo strettamente imparentato con il Prestissimo dell’op.109, con il quale condivide l’appartenenza a un mondo espressivo preromantico. Ancora una volta, il peso emozionale della Sonata è spostato sull’ultimo tempo, brano dalla curiosa e unica struttura formale. La pagina si apre con un recitativo, che culmina nell’affannosa ripetizione di un la naturale e sfocia nell’”Arioso dolente”, “dove un canto purissimo e struggente s’innalza […] su un dimesso traliccio di accordi ribattuti”. Da questo solenne bittender Prinzip, germina una calma e serena fuga in maggiore che sfrutta le potenti sonorità cantabili del registro di mezzo per esprimere una ritrovata stabilità in seguito a tanta disperazione. La coda eroica ed appassionata ha il carattere trionfale di una vittoria di spirito e ragione sugli abissi del sentimento. L’ultima Sonata di Beethoven, ultimata tre settimane dopo l’op.110, e pubblicata come op.111, consta di due monumentali movimenti. Si tratta di un ritorno al pianismo trascendentale dell’op.106, ma con nuove innegabili conquiste stilistiche. Il primo tempo, Allegro con brio ed appassionato, è preparato da una maestosa introduzione, che per carattere e ritmo puntato ci riconduce allo stilema barocco dell’Ouverture Francese. Le ripetute settime diminuite creano un clima di oscura tensione che sfocia, attraverso un lungo trillo nel registro grave, nell’Allegro, movimento in forma sonata di eccezionale severità e di unitarietà espressivo-strutturale notevole: benché non sia bandito il contrasto fra i due temi, la preponderanza del primo tema, marcatamente contrappuntistico, è tale da ridurre il secondo tema a un breve momento di respiro lirico. La furia di questo tempo si placa nell’affermazione della tonica maggiore nella coda in pianissimo. Il visionario e trascendente secondo tempo, “Arietta. Adagio semplice e cantabile”, secondo Romain Rolland “la parola più alta mai uscita dalla penna di Beethoven”, è un tempo in forma di tema variato. Il tema è armonicamente ancora più semplice di quello delle Variazioni dell’op.109, in quanto non contiene nemmeno la modulazione alla dominante alla fine della prima parte. Nelle prime tre variazioni un progressivo intensificarsi dei valori ritmici ci conduce dall’apollineo al dionisiaco, nella quarta il tema si dissolve fra l’oceano mormorante delle macchie timbriche dei bassi e l’immagine celeste delle terzine nel registro acuto. E, finalmente, inizia ciò che Andràs Schiff ha definito l’apoteosi del trillo. I trilli nell’arietta dell’op.111 sono infatti rivestiti di un significato affatto nuovo, che non ha più nulla a che vedere con una funzione decorativa o di arricchimento sonoro. I trilli qui hanno valenza spirituale, illuminano di rilucente bagliore il motivo iniziale, assurgendo a simbolo di una catarsi avvenuta. Durante la fluttuante, sospesa variazione trillata, Beethoven abbandona per la prima volta la tonalità d’impianto modulando a mi maggiore. Alfred Brendel ha scritto a questo proposito le seguenti parole: “C’è un solo punto in cui viene abbandonata la tonalità di do maggiore. Questa modulazione a mi bemolle maggiore, con l’ampia transazione che conduce al ritorno del tema, ci distacca dal tempo. Si trasforma in uno spazio infinito pur restando sempre parte del processo compositivo”. Ma l’analisi più illuminante è ancora una volta quella contenuta nel Doktor Faustus di Thomas Mann: “Ma molte cose accadono ancora prima che si arrivi in fondo. E quando ci si arriva e mentre ci si arriva, dopo tanta collera e ossessione e insistenza temeraria, avviene alcunché di inaspettato e commovente nella sua dolcezza e bontà. Il ben noto motivo che prende commiato e diventa una voce e un cenno di addio, questo re-sol sol subisce una lieve modificazione, prende un piccolo ampliamento melodico. Dopo un do iniziale accoglie, prima del re, un do diesis, […] e questo do diesis aggiunto è l’atto più commovente, più consolatore, più malinconico e conciliante che si possa dare. È come una carezza dolorosamente amorosa sui capelli, su una guancia, un ultimo sguardo negli occhi, quieto e profondo. È la benedizione dell’oggetto, è la frase terribilmente inseguita e umanizzata in modo che travolge e scende nel cuore di chi ascolta come un addio, un addio per sempre, così dolce che gli occhi si empiono di lacrime”. III – L’addio Il vero addio al pianoforte sarebbe stato dato da Beethoven con le Variazioni Diabelli e le ultime Bagatelle, che rappresentano il coronamento di un’immane sfida creativa, il raggiungimento dell’altipiano. Ciononostante, è lecito affermare che con l’op.111 finisce un’era. A colui che aveva sconquassato la forma sonata, forzandone l’ossatura e spingendola oltre i propri confini sarebbe toccato scrivere l’ultima sonata classica della storia della musica, se ancora di sonata classica si può parlare. L’inconsapevole addio alla composizione, avvenuto pochi mesi prima della morte con il Quartetto op.135, sarebbe stato invece segnato da circostanze assai più enigmatiche e ironiche. L’apposizione in calce alla partitura dell’ultimo tempo delle frasi “Muss es sein?” e “Es muss sein!”, che contrassegnano un frammento tematico e il suo rovesciamento, fu interpretata all’epoca nei modi più disparati (dall’aneddotica di più basso livello – un litigio fra Beethoven e la sua fantesca! – al “tentativo di penetrare nei segreti del travaglio creativo del maestro attraverso lo spiraglio di un presunto drammatico dilemma interiore” come scrive Ballola). In realtà si trattava di un’allusione a un canone scherzoso sull’omonimo testo inviato insieme a una richiesta di indennizzo dal compositore al ricco Musikliebhaber Demschler dopo che costui aveva fatto eseguire abusivamente in casa propria il Quartetto op.130, del quale il quartetto Schuppanzigh aveva l’esclusiva. Il tema del canone riappare, pizzicato, in un sornione pianissimo nelle ultime battute del Quartetto, ultima opera di Beethoven. Una sommessa risata e sublime umorismo dunque, non “i cataclismi sonori della Decima Sinfonia, muti e pietrificati come un oceano lunare” (Ballola). Beethoven non avrebbe potuto congedarsi dalla vita e dalla musica in altro modo. Alle esequie, avvenute due giorni dopo la morte, parteciparono più di ventimila persone. I compositori più eminenti, come scrisse il vecchio amico e violoncellista dilettante Nikolaus Zmeskall a Therese von Brunsvik, dedicataria della Sonata op.78, ressero i cordoni del feretro. Fra di essi vi era Franz Schubert, cui fu così idealmente passato il testimone: in seguito alla morte di Beethoven sarebbe infatti iniziato per Schubert un periodo di ricchissima vena compositiva dall’immensa profondità spirituale, destinato a essere troncato tragicamente solo dalla sua morte, avvenuta per febbre tifoide nel novembre dell’anno successivo. Il biografo Specht ci tramanda che “un forestiero, mentre passava l’interminabile corteo, chiese ad una vecchietta del popolo chi mai fosse il defunto per il quale si era mossa tanta gente. «Bisogna che lei venga ben da lontano», rispose la donna «altrimenti saprebbe che è morto il generale dei musicanti» (Richard Specht, Ritratto di Beethoven, Garzanti 1947). L’orazione funebre fu pronunciata da Franz Grillparzer. Affidiamo dunque le ultime parole al drammaturgo di Libussa e poeta di Melusina: “Le spine della vita lo ferirono profondamente, ma come un naufrago si aggrappa alla riva, egli si gettò nelle tue braccia, sorella sublime della bontà e della verità, consolatrice del dolore, Arte che scendi dall’alto… Fu un artista; e chi è degno di essere collocato accanto a lui? Dal tubare della colomba sino al rimbombo del tuono, dal più sottile intreccio di puntigliosi artifici sino alla terribile soglia in cui la forma si perde nel capriccio sregolato di forze naturali in conflitto tra loro, tutto ha percorso, tutto ha assunto in sé. Chi verrà dopo di lui non potrà continuarne il cammino, dovrà ricominciare dall’inizio, poiché colui che l’ha preceduto si è arrestato solo ai limiti estremi dell’arte”. Von Herzen – Möge es wieder – zu Herzen gehen! Dal cuore … possa nuovamente … tornare al cuore! (Frontespizio della Missa Solemnis op.123) Fonte: http://scuola.repubblica.it

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