Lo scrittore e giornalista NEVIO CASADIO è stao ospite di Caffè Letterario venerdì 19 aprile per la presentazione del suo libro "Nel silenzio un canto".
Lugo è un film della memoria. In cima alla canna, dritta come una canna tra i campi, Lugo era l’approdo. Si partiva dalla campagna a un tiro di schioppo per arrivare lì, sotto la grande ala, ogni volta con i timori di un anonimo banlieusard, come apparisse Parigi. Sequenze interrate tra i fili dei ricordi, di una Lugo lontana, eppure dagli odori ancora a portata di mano.
Lugo fu quel lume sulla fronte, puntato alla gola, da un dottore della mutua che in via Risorgimento estirpò le tonsille, serrando le gambe a tenaglia, a quel bambino che scalciava un po’ troppo. Lugo era quel viaggio a bordo di una Renault Daufhine che ogni mattina portava alla scuola media del Trisi. Lì, avendo a che fare con una professoressa di lettere che sapeva fare con studenti mediocri, buttando chi giudicava inadatto e tra questi, chi scrive. Lugo fu la visione del primo film, quello Spartacus che prese forza nello schermo, come un cielo stellato, al cinema Astra, in un grande segno di libertà. Lugo era quelle partite di pallone rubate al campo del tondo. Dopo aver trovato un buco tra la rete, la corsa verso i bordi del campo. Gimelli in porta, Sistro terzino sull’ala e Balbi..,col fucile spianato. Ah Balbi.., la fascia rossa da capitano, nel suo ruolo di libero… Libero immobile e imperioso, ogni volta sbatteva via la palla con i colpi secchi di testa che echeggiavano tra i suoni dialettali, per dar forza al Baracca.
Lugo fu quei giorni con le luci del cinema, portati da una Sophia Loren che soggiornò a Cotignola alla villa del francese, per introdursi fra sensali e giostrai, attorno alla rocca e alle volte del mercato del pesce. Oppure Lugo, di un pomeriggio, ancora al cinema Astra, dove un Lucio Dalla portò i suoni contagiosi, di una nuova febbre del rock.
Lugo, nel tempo, è spesso per me un libro rivolto al passato. Con le rime di un poeta minore, dalla vita sulle righe di un Dino Campana, come fu Lino Guerra. Si fermava sotto un albero, nel viale della stazione, a sentire cantare l’usignolo. Un giorno qualcuno gli vide in tasca una pistola e gli offrì cento lire per comprarla. Lino Guerra rispose che con cento lire sarebbe andato avanti ben poco e poi, una volta senz’arma, come avrebbe potuto ammazzarsi? E così Lino Guerra, il folle, “poeta-musico d’istinto, rapsodo di razza – come lo definì Balilla Pratella - dopo qualche giorno incise nella corteccia del suo albero, lungo il viale della stazione, una croce e le proprie iniziali. Poi si sparò e qualcuno esaudì la sua ultima volontà, seppellendolo al camposanto di Zagonara, sotto una croce di ferro.
Oggi, per me Lugo è una stazione ferroviaria dove prendo un treno, trovando nella sala d’attesa una fotografia, fatta a suo tempo da una narratrice del posto, Marina Guerra. L’opera sta lì, tra l’indifferenza dei più. Come a Firenze, nel bar della stazione di Santa Maria Novella, passeggeri distratti ignorano le due tempere di Ottone Rosai raffiguranti la campagna toscana, esposte alla parete, tra il bazar di gomme americane, patate fritte e snack. Ma la mia Lugo di oggi e di ieri, è fissata in una immagine splendida fatta a suo tempo da Olivo Barbieri, per quel grande progetto collettivo dedicato al paesaggio italiano voluto da Luigi Ghirri che fu “Viaggio in Italia”. Con quell’immagine che ritrae di notte il Pavaglione di Lugo, dovrebbe fare i conti chi a Lugo vive, lavora o conta qualcosa. Quell’immagine raccoglie l’assenza di cose e persone, eppure lì è ancora presente l’anima di cose e persone di sempre.
Qualche sera fa, per raggiungere l’Ala d’Oro, l’albergo, per la presentazione di un mio libro “Nel silenzio un canto” ho attraversato quelle medesime logge del Pavaglione, ritratte da Barbieri anni fa, e mi sono trovato immerso in un vuoto senz’anima. O almeno, a me è sembrato così. Da anni non passavo di lì alla sera. Di quel Pavaglione antico, ne hanno fatto una copia inquietante ad un tiro di schioppo. Un centro commerciale, ennesimo luogo-non luogo, tra i diversi sparsi dal nord al sud, che annullano sempre più la provincia italiana, cancellandone storia e pensiero, canti e parole, annegando per sempre l’identità. Ho attraversato quel posto attorno all’ala dedicata a Baracca da Domenico Rambelli; ho attraversato il luogo del monumento Le vie dell’aria, trovandomi in un posto senz’aria. C’era gente una volta nei pressi.
Ora attorno, serrande abbassate. Ho attraversato quel posto con la sensazione di trovarmi in un museo abbandonato, per infilarmi in un’altra ala, l’albergo del posto, L’Ala d’Oro da tempo. Quest’ala è una sorta di roccaforte, regalando alla sera l’uso della parola. Come nei trebbi o filò. Per un cronista, l’albergo è un ferro del mestiere. Alberghi dal nord a sud, dalle anime estinte, sempre più luoghi-non luoghi. Svegliarsi in un albergo, a Perugia, a Cagliari, a Skutari o a Pola, o in ogni parte, è sempre più un po’ la stessa cosa. Ormai, sempre più, le pareti attorno ad ogni luogo-non-luogo raccontano il nulla. L’albergo Ala d’Oro di Lugo, con il suo caffè letterario che accoglie e propone pensieri e racconti dai registri diversi, è un lume di speranza. È con lo scambio di parole che si mantiene l’unicità. Ala d’Oro è un albergo della provincia italiana. Tra le pareti, s’incontrano parole. Ha tutte le carte in regola, per la resistenza all’omologazione invadente, ossessiva e cialtrona. È con lo scambio di parole che si mantiene l’identità, nella conoscenza e rispetto delle culture diverse.
di Nevio Casadio