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Luigi Cannone, il bambino sulle cui spalle sto

Da Narcyso

 

cannone questo

Il bambino sulle cui spalle sto

C’è una sorta di quieto stupore in queste poesie di Luigi Cannone, ed è lo stupore del vivere, della luce che invade, più che colpire, appuntita, le cose e i pensieri: “Del mio apparire perdendomi / sono l’incanto, / lo sguardo che guarda, / l’orecchio che ascolta / la mano che ascolta”.
Ma anche il buio, che è fratello della luce, insinua quietamente il suo regno quando la luce si è ritirata, mostrandoci la malinconia che abita il mondo, la bontà di un silenzio quasi sempre assolutore: “Mi guardo passare e benedico / il buio che mi allaga”; “Fa buio / Ma più dentro, più ancora”.
Queste poesie, dunque, pur nella pienezza dell’esperienza, tendono le mani e gli occhi verso un telos ultimo; “liberato il volto da ogni inganno”, desiderano conoscere la natura delle forze che ci tengono saldamente ancorati alla vita e nello stesso tempo ci mostrano, come attraverso una superficie sottilissima, un altrove che non si dichiara: “Sfugge il luogo, / la presenza che da un punto di luce mi osserva.”
Così assistiamo a piccoli viaggi non lontani dalla casa, dagli affetti, vicini alle porte del nostro recinto quotidiano: il fiume, il lago, i monti… Lo sguardo vuole indovinare il pensiero che si nasconde dietro al mondo, lo porta gentilmente sulla nuda pietra, lo interroga, gli dà forma.
È una poesia grata alla vita, alla gioia e al dolore, proprio perché il pensiero che abita il mondo non può che contenere tutti gli opposti e a noi è dato percepirne le piccole tappe, gli esiti momentanei piuttosto che il progetto finale: “il crudele incanto delle cose / in cui la vita si perde l’inevitabile”.
Questi testi, dunque, non si dilungano, sono sentiti nelle forme di un lirismo aperto e gentile, giungono velocemente alla loro conclusione proprio perché il sentire sembra essere una parusia, un veloce afferrare la parola che ci è data, mentre i nostri sensi sono immersi nel fluido di quel grande accadere che è la vita.
Così l’io a volte coincide con un noi, perché ciò che sentiamo è esperienza della specie: accomuna e separa; separa, soprattutto, la sensibilità dei poeti dalla sciatteria della comunicazione, dall’assuefazione dello sguardo quando non sa distinguere e non sa più capire.
Per questo l’io, in questa poesia, rimane comunque un po’ a parte, fedele alle ragioni misteriose del proprio scrivere: “Sono come in un sogno tra due venti ubriachi / e come in sogno m’accalco in cerca di una vita reale”. E la scrittura di Luigi Cannone, più che essere dettato, ascolto passivo del mistero che s’impone con parole impronunciabili, è colloquio con la voce che parla attraverso le creature sensibili della vita, con lo stupore e la complessità che le abita.
Infine, questa poesia è preghiera, ringraziamento sommesso per ciò che abbiamo e splende davanti a noi, spesso ignari del dono, dello sguardo buono degli altri; o del nostro stesso sguardo, quando è capace di aprirsi, sincero, alla vita delle creature, ai messaggi segreti che abitano le cose mute.
Prima che la ragione s’incolli al mio viso
apro tutti i regali che ho avuto.
C’è una donna che con la mano mi chiama
e un uomo insonne che guarda le stelle.
Oltre il riparo dei pini gioco a palla insieme ai miei figli
e da qualche parte in me un libero spazio
sfiorato da leve segrete,
un puro esistere all’assalto che viene.

Sebastiano Aglieco


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