Giovanni Berardi e Luigi Magni
Questo è stato il mese dei ricordi, purtroppo, degli estremi ricordi. Anche Luigi “Giggi” Magni ci ha lasciato. Aveva detto: “ma si, tanto lassù troverò tanti amici, e questo non mi dispiace proprio, qui ormai sono rimasto solo”. Gigi di amici veri, nel suo mondo del cinema e del teatro, ne aveva davvero tanti, perché Gigi era davvero il bonario, quello della buona parola, quello che perdonava tutto, quello che non ricordava i torti, quello che non capiva mai il male. Non le afferrava proprio le maldicenze, l’invidia, il malaffare. Il nostro ricordo ora va a Luigi Magni quando ci aspettava tranquillo al bar Canova di piazza del popolo, qualche anno fa, a pochi passi da casa sua, nel giorno stabilito per una ulteriore chiacchierata. Lui era un puntuale. Già da via del Babuino, da dove scendevamo, lo vedevamo accomodato, sornione come sempre, a spuntare alcuni suoi appunti. I suoi film più importanti, da leggersi anche come autentiche tappe fondamentali della storia romana, sono stati certamente Nell’anno del signore, Scipione detto anche l’Africano, La Tosca, In nome del Papa Re, Arrivano i bersaglieri, State buoni se potete, In nome del popolo sovrano, La carbonara. Al suo cospetto non potevamo non ricordare come Piazza del Popolo fu il teatro dell’esecuzione dei due carbonari Leonida Montanari e Angelo Targhini da Magni poi rievocato nell’episodio del film Nell’anno del Signore.
Diceva Luigi Magni: “Ricordo ancora la gente che usciva dal cinema che stava qui dietro”, il Metropolitan incalzavamo noi, e lui diretto: “bravo, proprio quello, er cinema de Via del Corso, che non ce sta più, è tristissimo, nun me ce fa pensà. Dicevo che Nell’anno del signore al Metropolitan fu proiettato, nel 1969, per tutto l’anno, tutto per intero se le scarpinato er proiezionista, a quei tempi ce stava l’omo dietro la pellicola, uno che l’amava davvero quanto noi sta pellicola”, poi si interrompe e dice: “che te stavo a dì?” Lo riportiamo sul filo del discorso: “ecco, la gente usciva dar cinema e correva in piazza del popolo proprio per controllare se davvero ce stavano le statue di Targhin e Montanari. Pensavano, ce stanno davvero oppure se le inventate il regista…”. Luigi Magni davvero ha saputo raccontare meglio di tutti la romanità vista tra l’altro dentro un’introspezione sospesa tra la storia, il costume, la cronaca e, perché no, la fiction. Dice Gigi Magni: “sai, l’idea manifesto del mio cinema è sempre stata quella di partire dal passato per riferire invece dei casini del presente. La prepotenza del potere papalino, i moti del 1821 visti nel momento in cui in Italia imperversavano i moti del sessantotto, ho cercato, attraverso Roma antica, di capire le esigenze del terrorismo che imperava in questo paese già dai primi anni settanta e fino all’escalation del caso Moro, dopo ho raccontato anche, sempre attraverso Roma antica, la confusione dei nostri tempi, insistendo proprio su una realtà opportuna e condivisibile ancora oggi. E su queste cose tristi, e tragiche anche, ci ridevo sopra. E la critica in fondo a maltrattarmi: Giggi ridi su temi troppo importanti mi mandavano a dire. Bah…”. Era indignato Magni, ed ormai questo lo diceva con forza, perché avvertiva, sempre più concreto e tangibile proprio nella realtà di tutti i giorni, il desiderio sociale, artistico, letterario, di voler cancellare il nostro passato, fino a strumentalizzare la storia anche per fini solo politici o abbietti, addirittura. Diceva: “fate bene ad andare a trovare i registi anziani, almeno finché ci siamo fatelo, dopo sarà tardi e potreste pentirvene. Aho, nun me fa fa er professore, però…” borbottava infine alla romana e giù a sorridere.
Luigi Magni diceva che doveva l’entrata nel cinema al regista Antonio Racioppi, scomparso anche lui un mese fa, ed allo scrittore italo-americano Willie Antuono, e che, in realtà, non aveva mai avuto dentro di sé la vocazione dell’arte. “Io in quel periodo scrivevo solo raccontini su Roma, mi piaceva da matti scrivere, lo facevo solo per puro piacere” . Al contrario la passione per la settima arte ce l’aveva il suo amico Willie Antuono, che era a Roma per scrivere per il cinema, e la prima sceneggiatura di Antuono è stata proprio Tempo di villeggiatura diretto poi proprio Antonio Racioppi, a cui Luigi Magni ha dato una mano perché Antuono gliel’aveva chiesta espressamente. “Al cinema ci sono arrivato così, semplicemente vivendo” diceva Magni. Ci raccontava poi, sempre con gli occhi felicissimi di come Il mondo del cinema in quegli anni si dava appuntamento, anche se erano in realtà taciti appuntamenti, dai fratelli Menghi, in via Flaminia (e Magni dal bar Canova dove ci eravamo accomodati ci indicava istintivamente la via, che è adiacente proprio alla piazza), una trattoria che faceva credito a tutti gli artisti che capitavano a Roma, e lì si parlava solo e soprattutto di cinema, di teatro, di musica, di poesia, di pittura. E lì capitava spesso proprio con Antuono. I fratelli Menghi, ricordava sempre Magni, erano dei veri mecenati ed il cinema italiano migliore, così come anche la pittura e la poesia, deve qualcosa anche a loro, anzi moltissimo, proprio per il modo che avevano di trattenere gli artisti a Roma. Dalla trattoria Menghi, ricorda Magni, sono passati, qualche nome tra i tanti, Gillo Pontecorvo, Giuseppe Patroni Griffi, Ugo Pirro, Giuseppe De Santis, Rodolfo Sonego, Franco Solinas, e poi tanti pittori, poeti ed artisti da strada, tutti italiani ma stranieri a Roma, e tutti squattrinatissimi.Con Antuono, per il film Tempo di villeggiatura, Magni ha l’occasione di conoscere gli sceneggiatori, già importanti nel cinema italiano degli anni cinquanta, Furio Scarpelli ed Agenore Incrocci detto Age, chiamati dalla produzione a supervisionare la sceneggiatura di Antuono e Magni per il film di Racioppi che cominciava ad andare in produzione. Durante questo lavoro, Scarpelli ed Age riusciranno, in definitiva, a convincere Magni, che non ne aveva assolutamente voglia, a restare a lavorare per il cinema. Nasce così il Luigi Magni sceneggiatore. Ed in tale veste ha scritto film ormai storici per la cronaca recente del cinema: Gli attendenti di Giorgio Bianchi, Il corazziere di Camillo Mastrocinque, La Mandragola di Alberto Lattuada, Facciamo l’amore, non la guerra di Franco Rossi, La cintura di castità di Pasquale Festa Campanile, Il marito è mio e l’ammazzo quando mi pare di Pasquale Festa Campanile, La ragazza con la pistola di Mario Monicelli. Diceva Magni che tutte le sceneggiature realizzate non assomigliavano mai agli sceneggiatori, così, proprio per questo motivo, aveva deciso di diventare un regista. E Magni debutta nella regia nel sessantotto con Faustina, la storia di una ragazza nera nata a Roma; diceva Magni: “ma allora in Italia li chiamavamo, senza tanti scrupoli, “negri”. Ricorda Magni: “ma era il sessantotto, il tempo in cui cominciavamo a credere all’uguaglianza degli esseri umani. Dopo infatti siamo diventati migliori…” Magni diventa, a questo punto, un regista caposaldo del cinema italiano. Diventa, soprattutto, anche un cultore della nuova commedia all’italiana, molto spesso risolta ad episodi, secondo la moda ed i bisogni commerciali del tempo, ed infatti questo tipo di esperienza lo vede tra i maggiori artefici. Magni firma titoli come Tre notti d’amore, Le bambole, Extraconiugale, Le Streghe, Basta che non si sappia in giro, Quelle strane occasioni, Signore e signori buonanotte. Diceva Magni, sul grande tema della commedia all’italiana: “io penso che la commedia all’italiana è stata valorosa e significativa solo nel periodo che va dalla metà degli anni cinquanta e sino al sessantotto, perché tutta quella che è venuta dopo, negli anni settanta, è una commediaccia. La commedia all’italiana è andata spegnendosi proprio nei brutti film delle parolacce, quelli che si sono fatti dagli anni settanta in poi, quando cioè la parolaccia cessava di essere un linguaggio e diventava invece un motivo. E’ anche vero che la società italiana, che era molto satireggiabile nel periodo del boom e della ricostruzione dopo la guerra, in quei periodi degli anni settanta andava invece sempre più verso strade ed orizzonti non più ridanciani”. Invece Antonio Racioppi, che abbiamo incontrato sempre molto spesso e volentieri (i lettori di questa rubrica ricorderanno) nella sua casa di Lavinio, sosteneva che la commedia all’italiana è stata davvero un movimento culturale, anzi l’unico movimento culturale creato dal cinema italiano. Magni invece la considerava come qualcosa di più quando diceva: “nella sua economia la commedia all’italiana ha avuto una influenza sociale fortissima“. Comunque, secondo il regista la sua produzione filmografica classica, quella della Roma antica, ottocentesca e papalina, non rientra precisamente nei canoni della commedia all’italiana. Spiegava Magni: “si, io ho avuto un interesse diverso dalla commedia all’italiana, se qualcosa ci ha legato è stato forse l’uso di certi materiali simili. I miei film sono sempre ambientati in una determinata situazione storica, sono film anche definibili comici, non lo nego, ma hanno riferimenti assoluti solo a delle realtà politiche, piuttosto che a quelle di costume. Poi, forse il fatto di aver lavorato sempre con gli attori simbolo della commedia all’italiana, parlo dei grandissimi Manfredi, Gassman, Sordi, Tognazzi, Vitti, ha alimentato sicuramente quello che per me rimane un grosso equivoco di fondo”. Alla fine della chiacchierata al bar Canova, lunga due ore e mezza, indicando la Chiesa di Santa Maria dei Miracoli, in piazza del Popolo, più nota a Roma come la Chiesa degli Artisti, Magni ricordava: “con gli amici del cinema ormai ci incontriamo piuttosto lì. Quest’anno abbiamo salutato Furio Scarpelli e qualche giorno fa pure la Suso Cecchi D’Amico”.Infine la visita a casa, un appartamento sobrio nella storica via del Babuino, a consegnarmi un testo che aveva piacere che leggessi. Prima di salire le scale di casa, Luigi Magni ricordava: una volta qui a via del Babuino, sentivi il rumore dell’acqua delle fontanelle sparse quasi in ogni dove, sentivi il rumore degli zoccoli dei cavalli che trainavano le loro carrozze…”. Era inevitabile, lo abbiamo pensato in cuor nostro, per un cantore autentico della Roma sparita, una ventata sana e sincera di nostalgia. Infine il nostro saluto alla moglie, la scenografa Lucia Mirisola, in quel tempo reduce da un infortunio e costretta al riposo. Anche a lei vanno, e soprattutto, i nostri tristi ma grandi pensieri di oggi.
Giovanni Berardi