Diceva Sant’Agostino: "Se non mi chiedono cosa sia il tempo lo so, ma se me lo chiedono non lo so più." La stessa cosa probabilmente accadrebbe a chi si sentisse rivolgere una domanda sul personaggio di Pirandello. Egli era saggista, novelliere, filosofo e psicologo al tempo stesso, ma usava spesso anche l’umorismo forse per esorcizzare il dolore insito nella condizione umana. Pirandello ha una personalità complessa e tale da essere spesso frainteso: ammirato forse, ma non amato perché la sua prosa suadente, distrugge le illusioni e pone l’uomo davanti alla propria realtà, fatta di compromessi e adattamenti ad un ambiente che lo condiziona e limita. Secondo Pirandello infatti, l’uomo è immerso in un flusso continuo, un divenire scomposto dominato dal caso, dal quale cerca di emergere nella continua ricerca della propria essenza, della sua propria identità, ma sarà costretto a indossare una maschera, pur sapendo che reciterà una parte precostituita da una società che altrimenti lo rigetterà e deplorerà. Influenzato in questa sua analisi, dalla filosofia irrazionalistica di Bergson e dalla psicanalisi di Freud, egli scava nel profondo dell’animo umano, lo denuda e lo costringe ad apparire com’è, nella desolante e sempre variabile (Bergson) realtà esistenziale. “La morte si sconta vivendo” dirà Giuseppe Ungaretti stigmatizzando con poche incisive parole la stessa, instancabile ricerca, cui anche Pirandello dedicherà la sua vita, per giungere alla stessa sconsolata conclusione: nascendo cominciamo a morire, guadagnando finalmente quella fissità che invano cercammo travolti dal flusso della vita dominata dalle convenzioni sociali, dalle quali ci si può liberare solo con la morte appunto o con una conclamata pazzia dalla quale finalmente emerga la vera essenza del proprio essere (Enrico IV, Il berretto a sonagli). Questa conclamata dicotomia fra vita e forma, sarà presente in numerose opere pirandelliane laddove soltanto liberandosi della maschera sociale che lo condiziona e vincola, l’uomo potrà esprimere se stesso nel pieno della sua interiorità, abbandonando il personaggio, la parte che è stato costretto a recitare, per manifestarsi nudo e libero degli abiti che gli “altri” lo hanno costretto ad indossare (Vestire gli ignudi) ma manifestando al contempo le tante contraddizioni che lo caratterizzano. In "Uno, nessuno, centomila") emerge in tutta la sua crudezza la condizione dell’uomo che è UNO perché ogni singolo individuo crede di essere unico nelle sue prerogative essenziali, CENTOMILA, perché ognuno di noi ha tante personalità quante sono le persone che l’osservano, NESSUNO perché, costretto ad indossare centomila maschere, finisce per non sapere più quale sia la sua vera identità.. E quando il caso affrancherà il protagonista de “Il fu Mattia Pascal” dall’obbligo di attenersi alle regole sociali, egli assumerà un’altra “forma” dalla quale però non riuscirà più a liberarsi.Pirandello è scrittore tragico, vero, autentico e reale . Se i grandi tragediografi greci del calibro di Eschilo, Sofocle, Euripide, illustrarono le gesta dei grandi personaggi del passato, se lo stesso più attuale Shakespeare elabora il dramma in parallelo ma al di fuori della quotidianità, Pirandello guarda al mondo della gente comune, l’umile, oscura tragedia di un’umanità, che un certo giorno sembra ridestarsi e, strappatosi di dosso l’inutile, logora maschera, si guarda allo specchio, si ribella, impazzisce, muore. Tale la condizione umana vista da uno scrittore che si rivela anche profondo esploratore dell’animo umano, una realtà che condisce di un umorismo sempre saturo di mestizia e tenera comprensione (La patente). Pirandello scrittore non è amato da tutti:la gente ama chi la illude, chi li diverte, chi li distrae, non chi li costringe a pensare, meditare, spogliarsi dei panni del personaggio per vedere se stessi immersi nella cruda realtà (La tragedia di un personaggio). Pirandello uomo avverte questo disagio, a volte è duro anche con se stesso ma sposa orgogliosamente ma senza eccessivo autocompiacimento, la famosa esortazione oraziana: “Sume superbiam quaesita meritis”. Dino Licci
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