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“Ho trentanove anni e sono una donna. Il mondo è una donna maltrattata e la vita è un uomo travestito.” (1)
Gioia ha quasi quarant'anni, solo una quindicina dei quali passati a solcare le vie del mondo. E di quei quindici anni di “libertà”, ricorda, o vuole ricordare, ben poco: una madre sempre più assente, l'inutile solerzia di alcuni parenti, un tentativo di trasferimento andato in fumo, la violenta repressione dei primi “dubbi” identitari, la vecchia casa sotto la quale -secondo i racconti della nonna-, il diavolo avrebbe atteso, in fondo a un pozzo, la visita degli uomini, per renderli folli; un “fidanzamento” finito male, la breve, dolorosa parentesi di un tentativo di fuga.
Per il resto, è rimasta rinchiusa in un “Ospedale Psichiatrico Giudiziario”, cercando di recuperare il ricordo di una misteriosa colpa rimossa.
Ma non c'è niente di giusto nella sua detenzione: non solo perché da alcuni “mali” non si guarisce, ma anche perché ci sono modi migliori per espiare le proprie colpe...
E, poi, Gioia, a sentirsi in colpa per il crimine che deve aver commesso, e che non ricorda, non ci riesce proprio, e in cuor suo sa che, se anche arrivasse a ricostruirne i contorni, le cose non cambierebbero.
E intanto le giornate, i mesi, gli anni, passano monotoni tra brevi dialoghi con infermieri scontrosi, violenti, o (raramente) concilianti, sogni, ricordi, piccole rivelazioni, confronti con i medici e nuove, inutili, terapie...
Con un unico, lungo, discorso indiretto libero -non un monologo, ma un dialogo tra la protagonista e la sua memoria torturata (e torturante)- che procede, come tutte le narrazioni orali, per iterazione e accumulazione, un brandello dopo l’altro, verso l’auto-comprensione, e nel suo accumulare tira in ballo tutta una serie di immagini, canzoni, slogan, elementi presi direttamente dal linguaggio e dall'immaginario pubblicitario(2), Luigi Romolo Carrino ricostruisce l'inquietante storia di Gioia.
Ma non è tanto (o non solo) la biografia di Gioia a fare da fulcro al racconto, quanto i vari -più o meno vani- tentativi di recupero e ricostruzione di un'autonarrazione interrotta: "Pozzoromolo" è la cronaca di un'anabasi, una discesa negli “inferi” di un subconscio pieno di cicatrici, che sembra -alla protagonista- passo inevitabile per un recupero del se', ma che si risolve con la definitiva "caduta in un pozzo", perché, proprio come nelle storie della vecchia nonna, chiunque arrivi a incontrare il demone è irrimediabilmente destinato a rimanere folle...
Seconda prova narrativa di Luigi Romolo Carrino,e romanzo tra i più importanti usciti in Italia nel 2009, "Pozzoromolo" èsegnato da due forze uguali ed opposte: una centripeta, che spinge il lettore nel bel mezzo del racconto, grazie alla coincidenza del suo punto di vista con quello del narratore(3), e una centrifuga, che lo riporta al di fuori in virtù dello sforzo interpretativo. Così, grazie alla scelta dell’autore di mantenere il narratore sempre al limite tra il “dire tutto come viene”, e il “perdere il filo” (e/o il senso) del discorso, il lettore-interprete riguadagna uno spazio di fruizione anche razionale, altrimenti potenzialmente negato dal forte coinvolgimento emotivo.
Il romanzo "Pozzoromolo" di Luigi Romolo Carrino è edito da Meridiano Zero.
(1)Luigi Romolo Carrino, "Pozzoromolo", Meridiano Zero, Padova 2009, p. 189
(2)Questi elementi funzionano come indicatori cronologici (es. gli Anni ’80 della “Girella” e di "L’estate sta finendo") e "geografici", collocando la storia nel mondo “vero” del lettore, e nel contempo svelano l’inconfessabile (e inconfessato), intervenendo dove le parole finiscono.
(3)Il racconto, all’interno del quale l’atto dello scrivere inteso come ricerca linguistica unisce e divide i due narratori –quello extradiegetico, poeta ancor prima che scrittore, e quello intradiegetico, “raccontatore orale” e autodidatta da poco approdato alla scrittura-, scorre sulla pagina come nella mente del protagonista, ma con un piccolo scarto temporale: espressioni ripetute, tipiche dell’affabulare orale, come “c’era, c’era, ora mi ricordo che c’era, c’era una volta…” (cfr., per esempio pp. 151), oltre a evocare la distanza degli eventi narrati dal tempo della narrazione indicano uno spostamento tra il momento del ricordo e quello della sua stesura. Questa distanza, anche minima, smentisce l’apparente “immediatezza”, che sembrava garantita dalla forma espositiva “spontanea” e “non programmata”...
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