Avevo sedici anni, il mio mondo era Viareggio e la dovevo lasciare. L’ordine era stato dato preciso: Viareggio sarebbe diventata zona di guerra. Gli abitanti dovevano andarsene tutti. A scuola avevo saputo della scoperta di Galileo, circa il moto degli astri, ma per me il sole si levava da monte e cadeva in rosso sul mare, come un ordinatissimo e rassegnato servitore di Viareggio, e solo per questo risplendeva in cielo. Così, dover andarsene da Viareggio, significava per me andare all’altro mondo, anche se l’altro mondo distava solo pochi chilometri nell’entroterra.
Per strada, dietro il carretto con i mobili appena appena necessari, alcune brande, un armadio, la biancheria, ci accodammo ad una fila di altri profughi come noi. Eravamo in pochi ad andarcene però. Gli ultimi rimasti, i più poveri, i più coraggiosi, i più attaccati alla città.
Viareggio – Chiesa di S.Antonio in macerie dopo i bombardamenti – Foto tratta da Nuova Viareggio Ieri N.16 – gennaio 1996
Le strade erano deserte o quasi, le porte spalancate, le case vuote mostravano negli interni gli avanzi degli sgomberi recenti. Per lo più erano fogli sparsi e mucchi di libri. Chissà perché erano quelli i più abbandonati.
Raccolsi in un mucchio un libro dell’Alfieri, vecchio di cento anni. Lo presi con me perché mi pareva fortunato lui, con quei suoi cento anni di vita. Ma non lo lessi allora.
Per strada ci conoscevamo tutti e si parlava di guerra, di bombardamenti, di mercato nero, di fame. Facemmo diversi viaggi col carretto per portare con noi più roba possibile. Notai che ognuno smetteva di parlare non appena si imboccava la via Aurelia, al cimitero e restavano dietro di noi, più felici, i morti.
Dovevamo far presto a sgombrare ed io tornai in città proprio all’ultimo, quando era proibito il passaggio ai civili.
Abitavo nella pineta di levante e con una scusa ottenni il permesso di ritornare là. Volevo rivedere ancora una volta tutta la mia città prima di staccarmene del tutto.
Io sentivo, da sedicenne, molto più le cose presenti che l’ansia per il futuro e la guerra e le stragi. In quel presente io venivo tolta al luogo in cui ero cresciuta e ciò mi faceva soffrire. Dopo tutto, si può dire che ero nata alla vita con la guerra e, dopo la dichiarazione, a parte i bollettini che parlavano di smaglianti vittorie, in casa mia la miseria non era, né più né meno, che quella di prima.
Viareggio – La zona del cavalcavia dopo i bombardamenti – Foto tratta da Nuova Viareggio Ieri N.9- novembre 1993
Tornai oltre il ponte girante mo non potei raggiungere la mia casa. In pineta, i genieri stavano attaccando ad ogni pino una mina e tanti fili di traverso ai cespugli.
Guardai da lontano quegli ombrelli verdi contro l’azzurro, che avevano coperto tanti miei sogni. Davanti a me le rovine del palazzo comunale sparse fino a coprire i tronchi dei grossi platani. La vita era rimasta in cielo, tra le piante, dove i passeri si intrecciavano ignari di tutto.
Costeggiai il canale privo di vita: sotto il pelo dell’acqua affioravano gli scafi affondati lì e i contorni vaghi si muovevano in riflessi vivi. Le case senza imposte, senza porte. Molti si erano portati via le porte, forse come un talismano per il ritorno, e molti al ritorno si ritrovarono con le porte e senza casa.
Ogni tanto, tra le vie, qualche passo. Qualche soldato, oppure qualcuno che, come me, stentava a distaccarsi.
La vita dei giovani in tempo di guerra è povera. Niente danza, niente riunioni, niente gite. Niente di divertente neppure a scuola, dove gli insegnanti avevano le bocche murate dalla dittatura. Senza accorgermene io amavo allora la verità che scorgevo solo nei poveri visi delle persone occupate a viverla. Ne risultava una specie di amore per il tutto e una comprensione che abbracciava anche le mura, le case, le vie, il verde e il cielo che ospitava questo mio mondo reale.
Con l’ordine di sfollamento mi parve che la guerra avesse compiuto il suo atto più orribile. Aveva disperso il mondo della mia verità. Intorno a me desolazione e abbandono, in alto, il solito cielo azzurro. Laggiù, oltre la bocca del porto, un mare tremolante in oro come un insulto, sulla sabbia gomitoli di filo spinato, cespugli di ferro e, sotto la sabbia, le mine. Pensai alla pineta piena di quelle insidie.
[…]
( Luisa Petruni Cellai, Viareggio era morta, Racconto segnalato al concorso “Viareggio ieri” 1966 e pubblicato sulla rivista “Viareggio ieri” N.6 del 15 giugno 1966 )
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