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“Lungo è stato il giorno” di Edoardo Penoncini Ed.Ibiskos-Ulivieri

Creato il 17 febbraio 2014 da Viadellebelledonne

ferrara

I versi di “Lungo è stato il giorno”, con prefazione di Matteo Bianchi, libro vincitore della XVI edizione del Premio Città di Empoli Domenico Rea, confermano l’intento già manifestato e messo in pratica con coerenza da Edoardo Penoncini nella sua produzione letteraria: fare argine, al tempo, all’effimera inconsistenza dell’epoca che viviamo, alle incongruenze e alle ferite. Ma la barricata di Penoncini è eretta con materiale flessibile, costruita con cura ed efficacia ma senza strepito, senza plateali colpi di martello. Non si tratta di una Linea Maginot elefantiaca e ironicamente inutile. Siamo di fronte ad una recinzione discreta, funzionante più per l’accorta collocazione che per l’accumulo di materiali. La poesia di Penoncini rispecchia la natura della sua città di residenza e di elezione, Ferrara. Città a cui l’autore ha dedicato specificamente un suo intenso libro, Qui non si arriva di passaggio, ma, in senso più generale, sui cui ritmi e atmosfere ha improntato la sua scrittura. Una città che si colloca al di fuori di grandi assi stradali, dalle rotte automobilistiche e mentali più trafficate. Una città concreta, carnale eppure onirica, sempre attuale eppure fuori dal tempo, tenacemente orientata verso la ricerca della bellezza, quei momenti che, alla fine di un lungo giorno, vale la pena ricordare.

Il tempo, dunque, ancora lui, inesorabile punto interrogativo posto all’inizio e alla fine di ogni frase, ogni atto espressivo, ogni domanda, come nella lingua spagnola. Penoncini non fa eccezione, e, come uomo e poeta, non si sottrae al timore ma anche all’attrazione del ragionamento sul tempo, astrazione sull’astrazione, ipotesi di ipotesi, esercizio acrobatico rischioso ma inevitabile. Non è un caso che un altro suo volume, La spesa del giorno, pubblicato nel settembre del 2012, contenga questo riferimento cronologico, questo parametro delle ore di una singola giornata che è in grado di rispecchiare, come nel rapporto tra microscopio e cannocchiale, l’intero arco di una vita o lo sviluppo della vicenda umana, le ere storiche, il passato, il presente e il progetto di un futuro ancora tutto da inventare. Anche in questa ricerca comunque Penoncini resta sulla linea prescelta e a lui consona, quella di una serietà non rigida, non dogmatica, prova dei dettami di certezze assolute. Anche in questo suo recente volume, nella lirica di pagina 34, “Cosa siamo”, esprime un pensiero che si può visualizzare con un sorriso, amaro ma non agro, con un taglio che oscilla, quasi a mimare sensazioni mutevoli: “basta seguire il sole e il suo arco/ dare senso al nostro viaggio/ e forse non siamo davvero il vuoto/ d’un tramonto o la speranza di un’alba”. Domina, minuscolo ma ineludibile vocabolo, quel “forse”. E una consapevolezza, di radice montaliana, ma accuratamente rivista e rivissuta, di quello che non siamo. “Forse non siamo davvero il vuoto”, scrive Penoncini. Lungi dall’essere un’affermazione incerta, racchiude una presa di posizione decisa, soprattutto in virtù del volume in cui si colloca, al culmine di un “giorno”, esistenziale e letterario, lungo e articolato. Restando fedele alla ricchezza fertile del dubbio, ad un pessimismo che non significa sconfitta o rinuncia a priori, Penoncini dichiara, senza neppure sognarsi di urlare o predicare, che c’è qualcosa di più oltre alle impalpabili e fulminee comunicazioni dei nostri tempi, oltre agli strumenti sempre più moderni ed evoluti, aggiornabili in tempo reale.

C’è la bellezza, dei palazzi e delle campagne della sua terra, emersi quasi a sorpresa dalla nebbia, c’è la presenza e il ricordo delle sensazioni e dei sentimenti vissuti, colori e gesti ancora vivi negli occhi, sulla pelle e nella memoria. L’autore non cerca e non ipotizza un’improbabile Arcadia contemporanea né un eremo da stilita. Ha la volontà e il coraggio, però, di dire che ci deve essere qualcosa che sia in grado di legare ciò che è incorporeo e ciò che è tangibile. Qualcosa che resti, alla fine del giorno, nonostante il correre senza fiato delle stagioni, anzi, proprio in virtù di tale corsa che è anche rincorsa, percorso, tracciato intricato ma vario, vivo e vitale. Penoncini, in punta di penna, ma in modo nitido, ci suggerisce che quello che rimane è, forse, “un nuovo angolo appartato tra i libri/ [che] vale un mondo di perfetti equilibri”. La rima è un collante quasi naturale, qui, in questo contesto, mette in relazione materia e pensiero, il gesto e la prospettiva. Un libro, quindi, carta, materia che può essere percepita tramite i sensi, tatto, olfatto, vista, udito, forse anche gusto, come un alimento per il corpo e lo spirito. Un libro non inteso quale asettica sequenza di parole, ma come referente, testimone e protagonista di gesti e momenti, stati d’animo contrapposti, rabbia ma anche amore. Con un pudore che gli impedisce di scadere nel retorico, ma anche con la volontà e il coraggio di mostrare ciò che veramente sente, Penoncini parla di un amore, non a caso espresso tramite la parola scritta, in un connubio inscindibile: “ad ogni alzata di sole/ d’inverno sfumavi nella nebbia/ aspettavi testarda il portalettere”. Una donna, una città, la vita stessa, la gioventù, l’illusione e il sogno di vivere; i destinatari della poetica missiva possono essere tutti e nessuno. Magari è soltanto una donna, una persona reale, non nominata esplicitamente ma mai dimenticata. Una persona in carne ed ossa che rappresenta per il poeta il filo rosso che lega pensiero, vita e scrittura, rigorosamente a mano, in questo caso, come una carezza, metaforica e reale. Forse la stessa persona a cui è indirizzato l’incipit scritto in corsivo della lirica “Dove si quieta il vento”, l’esordio perentorio, tra pathos e umorismo: “ti amo – dicesti – come la mettiamo(?)”. Prosegue con un nota amara, “s’è persa la speranza nel brillio/ d’una notte ineguale senza pace”, e, evidenziata anche dalla collocazione grafica, isolato tra due sequenze di versi compatti che lo precedono e lo seguono, il sunto, della lirica e forse anche del libro: “richiama l’arcano questo ricordo”. Il mistero resta, anche alla fine di un giorno lungo e denso di eventi, incontri e mutamenti. Ma l’arcano può essere richiamato, può riacquistare consistenza, tramite la stessa parola da cui ha avuto vita, attraverso cui ha sviluppato tutto, compreso il mistero stesso. Una struttura ad anello, una ring composition, formale ma anche sostanziale. La riflessione di Penoncini si manifesta con una struttura priva di elucubrazioni forzose e magniloquenti ma non per questo risulta meno pregnante, in grado di chiamare in causa, di spingere, seppure con il sorriso di cui si è detto, a interrogarsi, a chiederci a nostra volta dove si quieta il vento.

Diversi sono i giorni, la lunghezza, il colore e la sostanza delle ore individuali, soggettive, vissute ciascuno nel modo in cui si è potuto più che voluto. Eppure il libro di Penoncini, il suo giorno raccontato con i versi, è in grado di creare un ponte, un dialogo. È capace di indicare con la forza di una sincerità nitida ciò che davvero conta, quello che rimane, a dispetto della fretta inconsistente, a dispetto delle beffe reali di un mondo che troppo spesso si riveste di larve fittizie: “restare quel che si è/ appena uomini/ con gli occhi pieni di futuro e basta/ perché tanto si scioglie nel calendario/ ogni sospiro ricco di giochi vissuti/ partenze improvvise verso l’eterno/ con le bocche piene di verde della terra”. In queste parole c’è la sostanza della ricerca espressiva ed esistenziale portata avanti da Penoncini, tempo e senso, inteso sia come moto che come significato e percorso parallelo, effettuato nel tratto che separa ed unisce la dimensione onirica e quella reale, il volo e la terra.

Per ulteriori informazioni sull’autore:

http://www.storiadidassi.it
http://www.edoardopenoncini.it
http://lalucedellultimacasa.wordpress.com/

Ivano Mugnaini

Edoardo Penoncini, Lungo è stato il giorno, Ibiskos Ulivieri, Empoli, 2103, prefazione di Matteo Bianchi

I versi di Lungo è stato il giorno, libro vincitore della XVI edizione del Premio “Città di Empoli – Domenico Rea”, confermano l’intento già manifestato e messo in pratica con coerenza da Edoardo Penoncini nella sua produzione letteraria: fare argine, al tempo, all’effimera inconsistenza dell’epoca che viviamo, alle incongruenze e alle ferite. Ma la barricata di Penoncini è eretta con materiale flessibile, costruita con cura ed efficacia ma senza strepito, senza plateali colpi di martello. Non si tratta di una Linea Maginot elefantiaca e ironicamente inutile. Siamo di fronte ad una recinzione discreta, funzionante più per l’accorta collocazione che per l’accumulo di materiali. La poesia di Penoncini rispecchia la natura della sua città di residenza e di elezione, Ferrara. Città a cui l’autore ha dedicato specificamente un suo intenso libro, Qui non si arriva di passaggio, ma, in senso più generale, sui cui ritmi e atmosfere ha improntato la sua scrittura. Una città che si colloca al di fuori di grandi assi stradali, dalle rotte automobilistiche e mentali più trafficate. Una città concreta, carnale eppure onirica, sempre attuale eppure fuori dal tempo, tenacemente orientata verso la ricerca della bellezza, quei momenti che, alla fine di un lungo giorno, vale la pena ricordare.

Il tempo, dunque, ancora lui, inesorabile punto interrogativo posto all’inizio e alla fine di ogni frase, ogni atto espressivo, ogni domanda, come nella lingua spagnola. Penoncini non fa eccezione, e, come uomo e poeta, non si sottrae al timore ma anche all’attrazione del ragionamento sul tempo, astrazione sull’astrazione, ipotesi di ipotesi, esercizio acrobatico rischioso ma inevitabile. Non è un caso che un altro suo volume, La spesa del giorno, pubblicato nel settembre del 2012, contenga questo riferimento cronologico, questo parametro delle ore di una singola giornata che è in grado di rispecchiare, come nel rapporto tra microscopio e cannocchiale, l’intero arco di una vita o lo sviluppo della vicenda umana, le ere storiche, il passato, il presente e il progetto di un futuro ancora tutto da inventare. Anche in questa ricerca comunque Penoncini resta sulla linea prescelta e a lui consona, quella di una serietà non rigida, non dogmatica, prova dei dettami di certezze assolute. Anche in questo suo recente volume, nella lirica di pagina 34, “Cosa siamo”, esprime un pensiero che si può visualizzare con un sorriso, amaro ma non agro, con un taglio che oscilla, quasi a mimare sensazioni mutevoli: “basta seguire il sole e il suo arco/ dare senso al nostro viaggio/ e forse non siamo davvero il vuoto/ d’un tramonto o la speranza di un’alba”. Domina, minuscolo ma ineludibile vocabolo, quel “forse”. E una consapevolezza, di radice montaliana, ma accuratamente rivista e rivissuta, di quello che non siamo. “Forse non siamo davvero il vuoto”, scrive Penoncini. Lungi dall’essere un’affermazione incerta, racchiude una presa di posizione decisa, soprattutto in virtù del volume in cui si colloca, al culmine di un “giorno”, esistenziale e letterario, lungo e articolato. Restando fedele alla ricchezza fertile del dubbio, ad un pessimismo che non significa sconfitta o rinuncia a priori, Penoncini dichiara, senza neppure sognarsi di urlare o predicare, che c’è qualcosa di più oltre alle impalpabili e fulminee comunicazioni dei nostri tempi, oltre agli strumenti sempre più moderni ed evoluti, aggiornabili in tempo reale.

C’è la bellezza, dei palazzi e delle campagne della sua terra, emersi quasi a sorpresa dalla nebbia, c’è la presenza e il ricordo delle sensazioni e dei sentimenti vissuti, colori e gesti ancora vivi negli occhi, sulla pelle e nella memoria. L’autore non cerca e non ipotizza un’improbabile Arcadia contemporanea né un eremo da stilita. Ha la volontà e il coraggio, però, di dire che ci deve essere qualcosa che sia in grado di legare ciò che è incorporeo e ciò che è tangibile. Qualcosa che resti, alla fine del giorno, nonostante il correre senza fiato delle stagioni, anzi, proprio in virtù di tale corsa che è anche rincorsa, percorso, tracciato intricato ma vario, vivo e vitale. Penoncini, in punta di penna, ma in modo nitido, ci suggerisce che quello che rimane è, forse, “un nuovo angolo appartato tra i libri/ [che] vale un mondo di perfetti equilibri”. La rima è un collante quasi naturale, qui, in questo contesto, mette in relazione materia e pensiero, il gesto e la prospettiva. Un libro, quindi, carta, materia che può essere percepita tramite i sensi, tatto, olfatto, vista, udito, forse anche gusto, come un alimento per il corpo e lo spirito. Un libro non inteso quale asettica sequenza di parole, ma come referente, testimone e protagonista di gesti e momenti, stati d’animo contrapposti, rabbia ma anche amore. Con un pudore che gli impedisce di scadere nel retorico, ma anche con la volontà e il coraggio di mostrare ciò che veramente sente, Penoncini parla di un amore, non a caso espresso tramite la parola scritta, in un connubio inscindibile: “ad ogni alzata di sole/ d’inverno sfumavi nella nebbia/ aspettavi testarda il portalettere”. Una donna, una città, la vita stessa, la gioventù, l’illusione e il sogno di vivere; i destinatari della poetica missiva possono essere tutti e nessuno. Magari è soltanto una donna, una persona reale, non nominata esplicitamente ma mai dimenticata. Una persona in carne ed ossa che rappresenta per il poeta il filo rosso che lega pensiero, vita e scrittura, rigorosamente a mano, in questo caso, come una carezza, metaforica e reale. Forse la stessa persona a cui è indirizzato l’incipit scritto in corsivo della lirica “Dove si quieta il vento”, l’esordio perentorio, tra pathos e umorismo: “ti amo – dicesti – come la mettiamo(?)”. Prosegue con un nota amara, “s’è persa la speranza nel brillio/ d’una notte ineguale senza pace”, e, evidenziata anche dalla collocazione grafica, isolato tra due sequenze di versi compatti che lo precedono e lo seguono, il sunto, della lirica e forse anche del libro: “richiama l’arcano questo ricordo”. Il mistero resta, anche alla fine di un giorno lungo e denso di eventi, incontri e mutamenti. Ma l’arcano può essere richiamato, può riacquistare consistenza, tramite la stessa parola da cui ha avuto vita, attraverso cui ha sviluppato tutto, compreso il mistero stesso. Una struttura ad anello, una ring composition, formale ma anche sostanziale. La riflessione di Penoncini si manifesta con una struttura priva di elucubrazioni forzose e magniloquenti ma non per questo risulta meno pregnante, in grado di chiamare in causa, di spingere, seppure con il sorriso di cui si è detto, a interrogarsi, a chiederci a nostra volta dove si quieta il vento.

Diversi sono i giorni, la lunghezza, il colore e la sostanza delle ore individuali, soggettive, vissute ciascuno nel modo in cui si è potuto più che voluto. Eppure il libro di Penoncini, il suo giorno raccontato con i versi, è in grado di creare un ponte, un dialogo. È capace di indicare con la forza di una sincerità nitida ciò che davvero conta, quello che rimane, a dispetto della fretta inconsistente, a dispetto delle beffe reali di un mondo che troppo spesso si riveste di larve fittizie: “restare quel che si è/ appena uomini/ con gli occhi pieni di futuro e basta/ perché tanto si scioglie nel calendario/ ogni sospiro ricco di giochi vissuti/ partenze improvvise verso l’eterno/ con le bocche piene di verde della terra”. In queste parole c’è la sostanza della ricerca espressiva ed esistenziale portata avanti da Penoncini, tempo e senso, inteso sia come moto che come significato e percorso parallelo, effettuato nel tratto che separa ed unisce la dimensione onirica e quella reale, il volo e la terra.

Per ulteriori informazioni sull’autore:

http://www.storiadidassi.it
http://www.edoardopenoncini.it
http://lalucedellultimacasa.wordpress.com/

Ivano Mugnaini



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