“Il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre,
ma nel cercare nuovi occhi”
(Honore de Balzac)
Per ricordare ciò che siamo possiamo praticare l’arte del camminare, così come fece Henry David Thoreau, filosofo, scrittore e naturalista, pensatore libertario e figlio ribelle dell’America ottocentesca, vissuto in tempi in cui i coloni bianchi strappavano le terre ai nativi americani, anni duri in cui si abbattevano le foreste e si condannavano alla morte tante specie animali e vegetali che ostacolavano la folle corsa alla civilizzazione di frontiere sempre più ampie, verso l'Ovest.
Thoreau sapeva di essere solo contro la follia di quel dissennato sviluppo, perciò decise di rifugiarsi nella natura per ricercare le sue radici esistenziali, e iniziò a camminare per divenire un vagabondo, un moderno Pietro l’Eremita in “cerca della Terra Santa” perciò un sans terre. Il sentirsi un senza terra, quindi senza casa, ci consente di “sentirsi a casa propria ovunque, pur non avendo una casa in nessun luogo,” ed è il segreto dell’autentico vagabondare. Colui che è vagabondo può restare seduto in casa ed avere girato l’intero mondo, in quanto viaggiare non è discendere il corso del fiume per scoprire gli angoli più segreti delle sue rive.
Thoreau si schiera a favore della natura devastata, propugna l’assoluta libertà dello stato selvaggio per contrapporla alla cultura e alle ipocrisie della civiltà civile di allora, infatti dice: "vorrei considerare l’uomo come abitante della Natura, come sua parte integrante, e non come membro di una società,” egli non difende il tipo di civiltà del suo tempo, poiché essa “ha fin troppi paladini.” Nel vagabondaggio tra la bellezza della natura diventiamo quel Pietro l’Eremita che vive in noi, e che vuole “indurci a uscire e riconquistare la Terra Santa dalle mani degli infedeli.”
E’ nella natura che noi ritroviamo le nostre radici, poiché i tempi moderni creano dei crociati miserabili, e dei camminatori che “non affrontano imprese tenaci e di lunga durata.” I tempi che viviamo offrono solo delle piccole spedizioni che assomigliano a quelle gite in cui, alla sera, si ritorna al “vecchio focolare da cui siamo partiti.” E’ così che percorriamo solo metà del cammino per ritornare sempre sui nostri passi, mentre dovremmo avanzare anche facendo percorsi brevi, ma conservando “un imperituro spirito di avventura, come se non dovessimo mai far ritorno, preparati a rimandare, come reliquie i nostri cuori imbalsamati nei nostri desolati regni.”
Essere un Camminatore Errante significa essere fuori dalla Chiesa, fuori dalla Nazione, e fuori dal Popolo, in quanto diventiamo il rappresentante di un quarto stato che pratica la nobile Arte del Camminare. E’ questa un’arte che si ottiene solo per Grazia divina, e il capitale che apporta all’uomo che vi perviene, è l’agio necessario, la libertà e l’indipendenza, perciò per farsi camminatori è necessaria una espressa dispensa celste, e occorre essere nati nella famiglia dei Camminatori: Ambulator nascitur, non fit! afferma Thoreau.
E’ chiaro che il camminare a cui egli allude, non ha nulla a che fare con l’esercizio fisico, anche se il camminare avviene davvero, ma la pratica vera è nell’atto fisico che si attua nel progredire per andare alla ricerca delle sorgenti della vita, perciò si cammina come il cammello che rumina mentre procede. Vivere all’aria aperta rende la pelle più sensibile al sole, alla luce e al calore, perciò siamo esposti anche alle intemperie, ma una pelle più spessa o una pelle più sottile non è il quesito più importante del camminatore.
La nostra mente deve essere più aperta e luminosa per poter concepire come le mani del lavoratore, e dell’uomo concreto sono callose e dure, ma il loro tocco esalta il cuore molto più delle languide dita di un essere ozioso, infatti l’artigiano ha “dimestichezza col sottile tessuto del rispetto di sé e dell’eroismo.” Anticamente, ricorda Thoreau, vi erano dei filosofi che amavano passeggiare mentre istruivano i loro discepoli sulle verità antiche, perciò è inutile passeggiare nei boschi se non sono i nostri passi stessi a condurci verso quei boschi, perché nel bosco si cammina solo con il corpo che ascolta lo spirito nell'avanzare.
Nel camminare noi ritorniamo a noi stessi, lasciando fuori dalla mente tutte le preoccupazioni quotidiane e le faccende dell‘uomo, cancellando i traffici e i commerci usuali, perciò senza preoccupazione o ansia sui fatti del mondo. E' per questo che, mentre camminiamo, i nostri pensieri diventano limpidi, puri ed eterei come il cielo, e anche la nostra comprensione si allarga ad abbracciare la vastità del panorama che contempliamo per diventare più pregnante, fino a dilagare sulle pianure su cui si posa lo sguardo.
La nostra intelligenza si rinvigorisce e diventa come lampo e tuono, mentre i nostri cuori eguagliano la vastità, la profondità e la grandezza dei laghi, dei fiumi e delle montagne, e anche i nostri volti risplendono di gaiezza e di serenità mentre respiriamo tra le meraviglie della natura. I fondatori di ogni stato, afferma Thoreau, hanno tratto il loro nutrimento e la loro forza da una simile fonte selvaggia, infatti “dalla natura selvaggia dipende la sopravvivenza del mondo. Ogni albero tende le proprie fibre in cerca di essa.”
Nel mondo, quello che pulsa di maggiore forza vitale è quello che vi è di più naturale e selvaggio in noi, infatti questa forza rinvigorisce e, questo è il motivo per cui l’uomo si trova sempre arricchito dal materiale grezzo e puro della sua natura. Nella corteccia degli alberi, dice Thoreau, “nella semplice scorza di quegli alberi ruvidi e primitivi c’era, io ritengo, qualcosa di fondamentale che rinvigoriva e consolidava le fibre del pensiero umano” infatti “ci attira solo ciò che è selvaggio. Quel che è domestico annoia.”
Nella vita il pensiero libero e selvaggio non si può imparare a scuola, poiché esso vive solo se è svincolato dagli schemi imposti dalla cultura o accettati dalla comunità. “Il genio è una luce che squarcia le tenebre, come il balenare del fulmine che può distruggere il tempio stesso della conoscenza; non è un lumicino acceso al focolare della razza umana, che impallidisce al sopraggiungere della luce di un giorno qualunque.” I sogni dell’uomo che coltiva il pensiero selvaggio sono veri, anche se non affondano le loro radici nel buon senso dell’uomo comune che crede in altre verità.
Nelle “fantasticherie selvagge, che trascendono l’ordine del tempo e dell’evoluzione“ si nasconde “una ricreazione intellettuale sublime” perché nella brutalità di quello che riteniamo “selvaggio” non vi è che un pallido fantasma della ferocia che contraddistingue l’essere umano evoluto e civile che vive in guerra perenne con i suoi simili. La vita dei civilizzati non è altro che una vita meccanica, e l’uomo civile vive con minore consapevolezza del nobile giaguaro che ha degli attributi perfetti nel suo vigore, e nella sua selvaticità naturale.
E’ vero che tutti gli uomini generalmente si assomigliano, ma poi ognuno è un individuo particolare, ed è questo che è il senso selvaggio che vive in noi, e che “serba nascosto dentro di sé l’appellativo primordiale conquistato nella foresta” in cui “è registrato il nome primitivo che ci appartiene.” Questa natura non può essere conosciuta, perciò non può aderire a noi mentre dormiamo, nè quando siamo travagliati dalla collera o dalla tempesta delle passioni umane, infatti si riconosce solo camminando in mezzo alla pace della natura.
Nell’uomo non tutto andrebbe coltivato, in quanto dovremmo lasciare almeno un acro di terra non dissodata, e dovremmo lasciarlo ricoperto di prati e di foreste, affinché sia lasciato all’utilizzo immediato nelle emergenze della vita, poiché costituisce “un terreno fertile per l’avvenire attraverso l’annuale decomposizione delle sue componenti vegetali.” Questa conoscenza primitiva è la “grammatica oscura” che è l'istinto che ci deriva dalla nobiltà di animali come il giaguaro con cui dobbiamo fondare una Conoscenza Meravigliosa molto lontana dalla presunzione che ci priva del beneficio della nostra “effettiva ignoranza” del mondo.
Noi dobbiamo sapere che, una vita vissuta solo nella mente pascola nei soliti campi del pensiero, perciò ogni desiderio di conoscenza deve sempre essere rigenerato in atmosfere sconosciute, in un camminare di vita che è perenne e costante. Noi abituiamo il nostro cervello a funzionare al di sotto delle sue effettive capacità, e le esperienze che proviamo sono inesistenti, perciò giacciamo nella più piatta monotonia: è questa l’inerzia che va evitata, anche affrontando dei momenti di sconforto se percorriamo un sentiero in “notti lunghe, umide e oscure,” e non vediamo alcun “mondo a noi familiare.”
Quando il nutrimento scarseggia, nei boschi troviamo meno animali e, similmente, quando l’uomo è visitato da meno pensieri è come se il bosco che vive nella mente umana fosse devastato da una carestia, in quanto il nostro legname è “venduto per alimentare inutili ambizioni o andato in fumo” e non abbiamo un ramoscello su cui far posare i nostri pensieri. E’ così che i pensieri migliori non nidificano e non proliferano più in noi, perché i “nostri alati pensieri si sono fatti pollame,” perciò l’uomo vive inchiodato alla terra, e raramente ha voglia di saltare per elevarsi più in alto.
E‘ il contatto con la natura che ci fa schiudere come i germogli della foresta che crescono dirigendosi verso il cielo “sopra la testa degli uomini” ma, per camminare così va imparato il “vangelo dell’attimo presente” in cui si rinnega ogni passato abiurando al futuro, e in cui l’udito è desto al canto del gallo che ci chiama al risveglio mentre il sole sorge oltre lo steccato che segna il confine della nostra casa. E’ così che camminiamo verso la Terra Santa per giungere fino al sole che “illuminerà le nostre menti e i nostri cuori, e rischiarerà l’intera nostra vita con una grande luce che ci ridesterà, calda, serena e dorata come un raggio autunnale sulla riva di un fiume.”
Buona erranza
Sharatan