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"Le Origini, le Fonti e la Tradizione Manichea"

Da Risveglioedizioni

Origini, Fonti Tradizione Manichea

Le religioni universali oggi esistenti, come il buddhismo, il cristianesimo e l'Islàm, non si sono presentate come tali ai loro inizi, e d'altra parte non si sono diffuse ovunque sul nostro pianeta. La situazione è però diversa per il manicheismo, il cui fondatore si è proposto fin dall'inizio di divulgare il più possibile le sue idee nel mondo del III secolo d.C. attraverso l'opera di missionari, formulando la sua dottrina in modo così flessibile da renderla adatta a questo scopo...
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A differenza delle religioni da lui espressamente definite antiche, come lo zoroastrismo, il buddhismo e il cristianesimo, e dei loro rispettivi fondatori, egli ha cercato di evitare i loro errori, ossia soprattutto l'assenza di una tradizione fissa nell'ambito della dottrina e della prassi. Egli si è creato un proprio canone di Sacre Scritture, destinato a costituire il fondamento della sua dottrina, alla cui fissazione scritta ha prestato la massima attenzione.

Il manicheismo è l'unica religione dell'antichità che sia stata concepita esplicitamente da un personaggio storico come una religione universale e che sia stata fornita fin dai suoi inizi di una tradizione stabile posta per iscritto. In pratica questa sua configurazione si è conservata per diversi secoli, durante i quali tale religione si è diffusa in vaste regioni del mondo di allora (impero romano, Iran, India, Asia centrale, Cina). Inoltre essa ha rappresentato un tentativo del tutto singolare di collegare tra loro le tradizioni religiose dell'Oriente (Iran, India) con quelle dell'Occidente (cristianesimo, giudaismo, che d'altra parte avevano origini orientali), e quindi per così dire ha tratto la somma di una parte considerevole della tradizione religiosa, inquadrandola nella concezione dualistica della gnosi. In tal senso il manicheismo è veramente una religione universale gnostica, dotata di un proprio <<fondatore>>, e di una tradizione autonoma e fissa.

Nelle fonti troviamo che questa religione designa se stessa con nomi diversi, dovuti talvolta alla tradizione specifica a cui per motivi pratici si aderisce. Mani stesso ad esempio parla più volte della "chiesa" che lui ha eletto (ossia fondato, Kephalaia), o del "fruinento della vita" che ha prodotto. Si parla inoltre di "religione(o chiesa) degli apostoli (dellaluce)" "religione (o comunità) della luce". Con maggior precisione la si potrebbe definire però come "la dottrina dei due principi e dei tre tempi", poiché in questo modo si tematizzano due concezioni fondamentali di questa religione: il dualismo di luce e tenebre, e il corso della storia universale dal suo inizio alla sua fine. La religione di Mani è in realtà un "mistero" (myslerion) e una "rivelazione" (apokàlypsis). II manicheismo è quindi una delle grandi cosiddette "religioni rivelate" dell'antichità.

Nell'ambiente in cui è sorta la religione manichea confluita perciò l'eredità di diversi popoli, civiltà, religioni e lingue. Le vie commerciali che univano l'Occidente (Roma) all'Oriente (Asia) attraversavano questa regione, tanto la cosiddetta Via della Seta quanto, più a sud, quella che conduceva al Golfo Persico e all'India (e che fu seguita anche da Mani). Non è sempre facile perciò filtrare gli elementi originali degli inizi attraverso la tradizione scritta manichea assai ramificata. Ha poco senso, d'altra parte, definire sincretistica questa religione, poiché da un punto di vista storico-religioso il manicheismo è una realtà autonoma e inconfondibile, che per questo motivo ha anche una sua denominazione propria. Ma più di ogni altra religione di quest 'ambiente e di questo periodo, esso è frutto anche di un complesso di eredità che fanno apparire del tutto privo di senso definirlo un'"eresia" zoroastriana o cristiana, come si e fatto in passato in una prospettiva eresiologica e teologica.

Fino all'inizio del XX secolo la conoscenza del manicheismo si fondava esclusivamente sulla letteratura antimanichea (eresiologica) e sulle citazioni degli scritti manichei che essa riporta. I documenti che si possedevano erano costituiti dagli editti antimanichei degli imperatori romani (Diocleziano, Valentiniano I, Teodosio I e dalle due formule greche di abiura del VI secolo. Tra le testimonianze eresiologiche, ancora oggi importanti, vi è anzitutto quella del vescovo nestoriano Teodoro bar Konài (VIII secolo) che nel suo Libro di scolii, scritto in siriaco, ha dedicato un ampio capitolo ai manichei, con interessanti citazioni. Similmente il bibliotecario musulmano Muhammad ibn Nadim (X secolo) nel suo Indice dei libri (Fihrist) ci ha lasciato una ricca descrizione sul medesimo argomento, che è divenuta determinante per la successiva letteratura sulle sette (Sahrastani, al-Birùni). Il più antico interessamento (greco) alle dottrine manichee è dovuto ad un filosofo neoplatonico vissuto in contatto con le comunità manichee d'Egitto: Alessandro di Licopoli (verso il 300). Di questo stesso periodo è una lettera di un vescovo alessandrino (Teona?), che mette in guardia contro i manichei. E fòrse anche in questo periodo va collocata la descrizione (in greco) che un certo Egemonio ci ha lasciato) di una polemica fittizia tra un vescovo di nome Archelao e Mani, ambientata in Mesopotamia, la quale, con il titolo di Acta Archelai, ha esercitato un notevole influsso sulla tradizione ed ha spesso condizionato l'immagine del manicheismo fino ai nostri giorni.

In seguito si moltiplicano le polemiche contro il manicheismo, che si rende sempre più presente in Oriente e in Occidente attraverso missioni specifiche e la fondazione di comunità. Dall'Oriente provengono gli Inni eresiologici di Efrem di Edessa (306-373) e al Trattato contro i manichei (che non ci è pervenuto per intero) di Tito di Bosra (verso il 350). Se si prescinde dai suoi riflessi nei testi manichei e negli editti di Kirdir, la polemica zoroastriana si ritrova solo nella posteriore letteratura pahlavica del IX secolo, come nel Dénkart e nello ,Skand-Gumànìk Vicàr ("Risoluzione decisiva dei dubbi"). Per l'Occidente, specialmente in Egitto e nel Nordafrica, ricordiamo Epifanio di Salamina (315-403), che nella sua Cassetta dei medicinali (Panarion) ha "trattato" anche dei manichei (con citazione di scritti perduti); Didimo di Alessandria, detto il Cieco (IV secolo); Serapione di Thmuis (IV secolo); Cirillo di Alessandria (V secolo); e soprattutto Agostino, il quale dopo aver aderito al manicheismo come laico per quasi dieci anni, ha condotto un'ampia polemica contro i suoi correligionari di un tempo (soprattutto tra il 391 e il 401), che per secoli ha rappresentato una delle fonti principali del manicheismo e ancora oggi è di grande aiuto per la conoscenza del ramo latino-nordafricano dei manichei. L'ulteriore letteratura polemica si trova nelle posteriori fonti bizantine e latine delle correnti dualistiche (pauliciani, bogomili, catari, albigesi). "Manicheo" diventa così la parola preferita per designare queste e altre "eresie" e ancora all'epoca della Riforma viene usato come termine ingiurioso nelle dispute tra le varie confessioni.

Per l'epoca medievale anche la Cina ci fornisce fonti secondarie. La polemica contro la "religione della Luce" inizia nel secolo VIII, in seguito agli editti della corte imperiale. Qui è singolare il fatto che i manichei siano tenuti distinti, anche se spesso non in maniera chiara, da altre "società segrete" parallele, che talvolta propugnavano una rivoluzione sociale. In Cina però, e precisamente a Fukien, si trova l'unico tempio manicheo che si sia conservato, divenuto oggi un santuario buddhista; l'immagine cultuale e chiaramente quella di Mo-mo-ni (Màr Màni, "Signore/Maestro Mani"), come confermano anche altri reperti archeologici delle vicinanze e testimonianze letterarie del XVII secolo.

Solo nel XX secolo è stato possibile accedere alle fonti originali del manicheismo, per via delle scoperte avvenute in due luoghi del tutto diversi. Anzitutto, numerose spedizioni tedesche, russe ed inglesi, condotte tra il 1902 e il 1911 in Asia centrale (Turkestan), hanno ritrovato, oltre a centri buddhisti e cristiani (nestoriani), anche degli insediamenti manichei (specialmente nel Turfan, a Bazaklik e nella zona di Qoco), con ricchi manoscritti e pitture che oggi si conservano a Berlino. Bisogna menzionare inoltre i ritrovamenti avvenuti nell'oasi di Dun-huang (che documentano la presenza del manicheismo in Cina). I manoscritti manichei, spesso incompleti, sono redatti in diverse lingue e scritture: in dialetti iranici (partico, persiano, sogdiano), in paleoturco O uigurico, in cinese. Gli studiosi del manicheismo poterono così disporre dei primi documenti originali di questa religione. Anche se si tratta per lo più di traduzioni effetuate in epoche posteriori (VI-XII secolo), questi manoscritti conservano antiche tradizioni dei primi tempi del manicheismo (III-IV secolo). Per la prima volta si è venuti in possesso di interi "libri", e anche di frammenti di opere dello stesso Mani, come lo Sabuhràgàn e il Libro dei Giganti. Sono venuti alla luce testi cosmogonici, raccolte di inni e preghiere, "modelli di confessioni", opere di etica e di teologia, racconti storici e lettere. Il difficile lavoro di pubblicazione e di edizione, interrotto in Europa per via degli eventi politici del XX secolo, non è ancora terminato. Solo recentemente sono stati editi scritti importanti, come il Libro delle Parabole, il Sermone del Nous-Luce o il Sermone dell'Anima. Questi ritrovamenti dell'Asia centrale hanno documentato in maniera eccellente l'amore proverbiale dei manichei per l'arte e la scrittura manuale raffinata.

L'altro grande luogo in cui si sono verificati i ritrovamenti è l'Egitto. Qui nel 1930-1931 furono posti in vendita sul mercato antiquario dei manoscritti copti su papiro, i quali furono acquistati dal collezionista inglese Chester BeattY e dallo storico berlinese Carl Schmidt. Erano stati trovati tra le rovine di Medinet Màdi, nell'oasi del Fayum (Basso Egitto). I testi, che Schmidt quasi subito identificò come manichei, sono composti più precisamente in un dialetto dell'Alto Egitto (il subakhmimico o licopolitano) e provengono perciò da un antico centro manicheo. Vengono datati al IV o V secolo. Anche in questo caso si tratta di traduzioni ma esse sono vicine al periodo delle Origini del manicheismo più di quanto lo siano i testi del Turfan, e sono meglio conservate. Si tratta sostanzialmente di 6 o 7 libri, di cui tre sono già stati editi, ossia i Kephalaia ("Punti fondamentali" della dottrina manichea, rivelati e spiegati da Mani), le Omelie e il Salterio (Libro dei Salmi). Durante gli eventi tumultuosi della Seconda guerra mondiale alcune patti delle opere rimanenti sono state trasferite alcove (in Russia o in Polonia) o sono andate distrutte. Si tratta della raccolta delle Lettere liturgiche tratte dall'Evangelo Vivente, dei Detti (Lògoi) dei discepoli di Mani (forse) e di un secondo libro dei Kephalaia.

Il codice Mani di Colonia

Un alto ritrovamento significativo ci ha riservato ancora l'antico Egitto con il più piccolo libro dell'antichità (cm 3,5 x 4,5), che negli anni Settanta e venuto a far parte della collezione di papiri dell'Università di Colonia e ha perciò assunto il nome di Codice Mani di Colonia. Il suo titolo è Sul divenire del suo (= di Mani) corpo. Si tratta di racconti biografici sulle prime fasi della vita di Mani. Possediamo perciò per la prima volta non solo un testo greco originale, tradotto probabilmente dall'aramaico babilonese, ma anche una testimonianza della comunità sulla vita di Mani fino ai suoi primi viaggi. Il manoscritto risale quasi certamente al V secolo (difficilmente al secolo VIII). Frattanto archeologi australiani hanno trovato ancora altri papiri manichei nell'oasi di Dakhleh, nella zona occidentale del Medio Egitto, dove risiedeva evidentemente anche una colonia manichea. Come già si sapeva, si tratta fra l'altro di frammenti di un Libro dei Salmi e di un sensazionale Glossario siriaco-copto. I manoscritti ritrovati nel XX secolo hanno perciò arricchito enormemente la nostra conoscenza del manicheismo e hanno fornito alla ricerca un solido fondamento che prima non possedeva.

Nonostante la cura che Mani ha dedicato alle sue opere, queste ultime si sono conservate in misura molto ridotta; probabilmente furono distrutte già dai suoi avversari. Conosciamo però i titoli dei suoi libri.

I. Lo Sàbuhràgan, l'unica opera scritta in mediopersiano, conservata solo in frammenti; secondo la tradizione uigurica è detto anche il Libro dei due princìpi.

2. Il Grande Evangelo o l'Evangelo Vivente, in 22 capitoli, conservato solo in alcune citazioni e in un'antologia liturgica (Synaxeis); è scritto nella lingua madre di Mani, l'arainaico orientale, come lo sono pure le opere seguenti, ma ci è noto quasi esclusivamente nelle sue traduzioni (greco, latino, copto, iranico, turco, cinese).

3. Il Tesoro della Vita, noto solo da alcune citazioni.

4. La Pragmateia, un trattato sulle norme di condotta, anche questo non conservato.

5. Il libro dei Segreti (o dei Misteri), non conservato.

6. Il Libro dei Giganti, conservato solo in alcuni estratti (in mediopersiano); tratta dei racconti dei tempi primordiali, che conosciamo dal capitolo 6 della Genesi e dalla tradizione biblica parallela (Libri di Enoc), naturalmente nell'esegesi di Mani.

7. La raccolta delle Lettere o delle Epistole di Mani ai suoi discepoli o alle sue comunità; ci è nota solo tramite un elenco riportato nel Fìhrist di Ibn an-Nadìm e da alcune citazioni (in greco e in latino).

8. Alcuni Salmi e Preghiere, per uso liturgico, conservati solo in frammenti.

9.Una specie di Libro delle Immagini (Eìkòn o Ardhang), con cui si spiegava la cosmologia manichea attraverso una serie di illustrazioni; non si è conservato.

Tra queste opere di Mani solo cinque sono ritenute canoniche o "sacre", corrispondentemente al valore che assume il numero 5 nel sistema manicheo: il Grande Evangelo (che è il Nuovo Testamento di Mani), il Tesoro della Vita, il Libro dei Misteri, la Pragmateia e il Libro dei Giganti. In esse è racchiusa la "ragione (nous) e la sapienza" che Mani in qualità di "medico" possedeva quale "farmaco" con cui andare incontro ai dolori dell'umanità.

MANI, L'"APOSTOLO DELLA LUCE", E LA SUA OPERA

Il fondatore del manicheismo proviene dalla Mesopotamia. Il suo giorno natale può essere fissato al 14 aprile 216, nelle "città gemelle" Seleucia-Ctesifonte sul Tigri (corrispondenti agli attuali ruderi nelle vicinanze di Salman-Pak) . Si ritiene che i suoi genitori fossero di discendenza arsacide, ma la cosa è controversa. Mentre sappiamo che il nome del padre era Pattìk (greco Patikios, siriaco Pattìk), il nome della madre non è sicuro (Maria?). Non sappiamo neppure se Mani fosse il nome originario o un titolo posteriore, poiché questa parola in aramaico significa "vaso", "spirito", e l'usuale forma greca Manichaios (latino Manichaeus) deriva da mànì hayyà, "vaso/spirito della vita". Suo padre, prima ancora della nascita di Mani, aveva abbandonato la religione degli avi (iranica?) e si era unito ad una comunità di "battisti" (baptistès) situata nelle vicinanze ( Mesene), la quale si dedicava a pratiche ascetiche.

La prima formazione presso una comunità di "battisti"

Quando Mani ebbe quattro anni, il padre lo sottrasse alla madre e lo introdusse in questa comunità, dove egli si trattenne per i due decenni successivi. Solo il Codice Mani di Colonia fornisce notizie autentiche su questo periodo e su questa conmnità battista, mentre in precedenza le poche informazioni si basavano su fonti siriache e soprattutto arabe (Ibn an-Nadìm). Secondo questa testimonianza, i "battisti" erano seguaci di un certo Elkasai (greco Alchasaios, aramaico hayl-kasyà, "forza occulta"), attivo come profeta escatologico in alta Mesopotamia agli inizi del II secolo, il quale in un suo libro prescriveva rigorose pratiche di purificazione (tra cui un battesimo quotidiano) e comunicava altre "rivelazioni". Le sue dottrine possono essere considerate una forma particolare di giudeo-cristianesimo, a cui non erano estranei elementi gnostici. Mani ha dunque ricevuto la sua prima formazione spirituale in quest'ambiente, il quale però costituisce solo una delle fonti del suo pensiero. Purtroppo egli non dice nulla sulle fonti da cui trae le sue informazioni e fa riferimento soltanto alla sua scienza soprannaturale: "La verità e i misteri di cui parlo [...] non li ho ricevuti da uomini o da creature di carne, e neppure leggendo degli scritti, ma quando il mio beatissimo padre (ossia Gesù il Luminoso), che mi ha chiamato nella sua grazia, ha rivolto lo sguardo su di me e ha avuto pietà di me [...] con la sua grazia mi ha portato fuori dalla comunità della moltitudine, che non conosce la verità, e mi ha rivelato i suoi misteri" (Codice Mani di Colonia 64,4-65,22). Mani conosce anche buona parte degli scritti biblici, soprattutto le lettere (di Paolo, ma anche la letteratura extracanonica e la tradizione e la mitologia iranico-zoroastriana. Non fa problema la sua familiarità con concezioni gnostiche. Si è pensato che abbiano fatto da mediatori Marcione, strenuo seguace di Paolo e fondatore di una chiesa (II secolo), e il filosofo siriaco BarDaisàn (Bardesane, 154-222), ma in questo caso bisogna tenere presente la polemica eresiologica, che ha associato questi due personaggi a Mani, creando quasi una triplice alleanza eretica.

Il Codice Mani di Colonia ci dice inoltre che Mani, come suo padre, ha seguito anzitutto le dottrine e la prassi dei battisti, ma dopo numerose visioni ed esperienze si è formato altre idee, soprattutto riguardo ai riti di purificazione e alle norme sui cibi.

La nascita del manicheismo

Questa evoluzione raggiunse il suo massimo sviluppo in un'esperienza che egli ebbe a 24 anni e che è legata anche ad un evento politico, essendosi verificata nell'anno in cui il primo sovrano arsacide, Ardasir, conquistò Hatra e pose sul capo del proprio figlio Sàpur (Sàbuhr) la corona imperiale (il grande diadema) , ossia nell'anno 240; il giorno dovrebbe coincidere con il 17/18 aprile. Questa data segna la nascita della religione manichea. Mani è convinto che il "Signore santissimo" (non s'intende qui il "Signore della grandezza", ma Gesù il Luminoso o il Nous-Luce) gli ha inviato un "compagno" (syzygos) o "gemello" (dìdymos; arabo taumà; aramaico tòmà; mediopersiano nrymyg), il quale non solo gli ha rivelato i "misteri", ma lo ha assistito in tutti i pericoli, i dubbi e le sofferenze. Mani ha conservato questa sua fede per tutta la vita: questo era il suo angelo protettore (così nei testi copti), il suo "io" celeste. Dopo questa sua esperienza, Mani tenta di riformare la dottrina battista, richiamandosi all'autorità di Gesù e del fondatore della setta Elkasai (Alchasaios), attribuendo loro le sue idee sull'inutilità delle abluzioni esterne e sull'impurità dell'acqua che esse provocano; nello stesso tempo, però, si manifestano già i tratti dualistici della sua dottrina, con le conseguenze che ne derivano sul piano ascetico. Ormai è inevitabile la rottura con i battisti. Egli viene scomunicato da un sinodo. La sua situazione disperata gli viene allora chiarita dal suo "gemello", che così lo esorta: "Tu non sei stato inviato soltanto a questa religione, ma ad ogni popolo, ad ogni scuola e ad ogni luogo [...] . In grandissimo numero (gli uomini) accoglieranno la tua parola. Pertanto esci e va" (Codice Mani di Colonia 104). Mani trova i primi tre seguaci tra gli stessi battisti: suo padre Pattikios, Simeone e Abizachia.

I viaggi e l'amicizia con l'imperatore Sàbuhr I (Sapore I)

Iniziano a questo punto i viaggi missionari di Mani, sui quali siamo informati soltanto per i primi tre anni. Essi sono accompagnati da attività di predicazione, guarigioni e altri prodigi. Anzitutto, Mani si reca nella capitale Ctesifonte e dintorni, e poi in Media (Ganzak) e altri "luoghi ineffabili" (probabilmente dell'Armenia e dell'Iran). Nel Kugan dovrebbe aver convertito il sovrano locale (re). In compagnia dei suoi discepoli torna nella Babilonia meridionale (Mesene) e si imbarca a Ferat per raggiungere l'India (Sind). Di qui per via di terra attraverso il Turan, dove pure ottiene la conversione del re della regione, torna in Persia per assistere a corte all'intronizzazione del nuovo sovrano sassanide Sàbuhr I (primavera del 242). Anche altrove (per esempio Kephalaia, cap. 76) Mani racconta con orgoglio dei suoi numerosi viaggi, nei quali ha suonato l'"arpa della sapienza" e ha annunciato la "verità" della sua dottrina. Veniamo a sapere anche che fin dagli inizi, parallelamente alle sue attività, ha inviato alcuni tra i suoi discepoli più idonei, per esempio Addà(s) a Palmira e in Egitto, Tommaso in Siria, Mar Ammò in Partia. Personalmente, si limita invece soltanto all'Oriente (Armenia, Iran e India). Il fatto che inizialmente ottenga buoni successi - si parla continuamente di comunità da lui fondate o visitate - e legato all'interesse e alla simpatia accordatigli dall'imperatore Sàbuhr, che in qualche occasione lo accoglie tra il suo seguito (anche durante campagne militari). Perciò Mani gli dedica la sua prima opera, lo Sàbuhràgàn di cui ci sono rimasti solo frammenti. Possiamo intravedere quali fossero i motivi di questa simpatia: probabilmente la religione di Mani offriva a questo sovrano la possibilità di riunificare (o almeno di tentare di riunificare) sotto un flessibile tetto religioso le popolazioni e le confessioni religiose più diverse. Il dissidio, manifestatosi in seguito, tra Mani e la classe religiosa zoroastriana non era ancora, agli inizi, così acuto. D'altro lato, Mani era abbastanza abile nel guadagnarsi il favore del sovrano e anche di altri personaggi influenti dell'impero iranico (per esempio del fratello di Sàbuhr, Pèròz. Onesto gli riuscì anche con il successore di Sàbuhr, Hormizd I (270/272-273), ma non più con Vahràm (Bahràm I (273-276). Le ragioni di questa disgrazia non sono chiare. Probabilmente i sacerdoti zoroastriani, i Magi, avevano conseguito un prestigio maggiore a corte e si erano trovati perciò costretti ad eliminare il rivale troppo favorito. La loro accusa e questa: "Manichaios nel suo insegnamento e andato contro la legge (nomos) del popolo". Il responsabile principale di questa coalizione fu il capo dei Magi (magupàt) Kirtìr, fautore di una politica rigida contro coloro che non erano zoroastriani. Ad ogni modo, all'inizio del 276 Mani si trova a corte a Bèlapàt (Gundaisàbùr). Di quest'ultimo viaggio conosciamo un regolare itinerario (descritto soprattutto nelle Omelie, 42-46, che può aver preso a modello il cammino di Gesù sulla via della croce. Mani visitò le sue comunità della Susiana, della Mesene e di Ctesifonte-Seleucia, prima di giungere a Bèlapàt (alla fine di gennaio), dove dopo diversi tentativi gli riuscì di presentarsi all'imperatore.

Ne seguirono molti interrogatori e discussioni che però non riuscirono a persuadere il re e il suo seguito; anzi, Mani fu gettato in prigione, dove morì incatenato dopo 26 giorni, ossia il 14 o il 28 febbraio del 270 (secondo un altro computo il 26 febbraio del 277). Prima però aveva avuto ancora la possibilità di ricevere qualche delegazione delle sue comunità. Alcuni tra i suoi seguaci sono stati testimoni del suo decesso e lo hanno considerato come un'ascesa di Mani nel Regno della Luce, mentre la sua sofferenza e stata vista come una "crocifissione". Secondo fonti posteriori (cristiane e islamiche) il suo cadavere fu scorticato ed esposto, e ciò corrisponderebbe bene agli usi del tempo. La leggenda secondo cui Mani sarebbe stato crocifisso si richiama al valore simbolico che la morte possiede per i manichei oppure al trattamento del cadavere. Naturalmente, si diffusero anche reliquie del defunto.

Le persecuzioni e successori di Mani

Dopo la morte del suo fondatore la chiesa manichea ebbe a subire diverse persecuzioni, soprattutto sotto Vahràm (Bahràm) II (276-293) e Hormizd II (302-309). Inoltre la comunità rimase per molti anni senza una guida, e questo diede luogo a qualche temporanca divisione interna. Come capo supremo (archegòs) e perciò successore di Mani fu infine riconosciuto Sisinnio, che subì il martirio nel 291 292. La stessa sorte toccò al secondo successore, Innaio. La costante repressione dei manichei nei territori iranici portò in seguito all'emigrazione nelle regioni orientali e occidentali. Soltanto sotto l'islàm, nel secolo VIII, molti manichei tornarono in Mesopotamia, ma già nel X secolo il patriarcato dovette essere trasferito nuovamente da babilonia a Samarcanda. I1 baricentro del manicheismo è rimasto da allora in Oriente, mentre in Occidente, e soprattutto nell'impero romano, il manicheismo cessò di esistere. Come abbiamo detto all'inizio. Mani stesso ha posto ì fondamenti per una diffusione universale delle sue dottrine: "La mia speranza andrà verso l'Occidente e andrà anche verso l'Oriente. E sarà udita in tutte le lingue la voce del suo messaggio e sarà annunciata in tutte le città. Su questo punto, la mia chiesa e superiore a tutte le chiese che l'hanno preceduta. Queste chiese infatti sorgevano in paesi particolari e in particolari città. La mia chiesa si diffonderà in tutte le città, il mio Vangelo toccherà ogni paese" (Kephalaia, cap. 14)).

Con la sua sapienza, ricevuta dal "padre", egli avrebbe potuto arricchire tutto il mondo, se questo lo avesse ascoltato. La sua coscienza missionaria si trasmise totalmente ai suoi discepoli, che in quanto missionari portavano il titolo di "banditori" o "apostoli" (iranico frèstag, "inviato"). Ad imitazione di Gestì, egli ne scelse dodici che inviò in diverse regioni, e, oltre a questi, i suoi seguaci diffusero il messaggio manicheo soprattutto tra i mercanti viaggiatori (nelle fonti orientali mercante e manicheo sono spesso sinonimi). Ad esempio, Addà(s) (Adeimantios, latino Adamantius) e Pattìg (il maestro, non il padre di Mani) già verso il 244 furono inviati nel confinante impero romano e nel 260 Addà ottenne qualche successo a Palmira (Tadmor), e di qui raggiunse l'Egitto (Alessandria), dove già era attivo Pappo. La Siria fu territorio di missione dell'apostolo Tommaso (verso il 300), la Palestina di Akuas (Mar Zakú) , l'Armenia di Gabryab (Gabriabios). Ben presto sorsero comunità nell'Arabia settentrionale (Hìra), in Asia Minore, nei Balcani (pietra sepolcrale di Salona, in Dalmazia), in Italia (con testimonianze dell'inizio del IV secolo a Roma), in Gallia e in Spagna. Il Nord Africa viene raggiunto dall'Egitto e dall'Italia.

Questa diffusione così ampia in un tempo relativamente breve provocò la reazione dello stato e delle chiese stabilite: già sotto l'imperatore Diocleziano (284-305) fu promulgato il primo editto antimanicheo (297), a cui ne seguì un altro sotto Valentiniano 1 (372), inasprito sotto Teodosio (379-395) e i suoi successori. Si ebbero poi le polemiche eresiologiche, e infine le formule di abiura (verso il 600). Con il VI/VII secolo vengono meno le notizie sui manichei in Occidente, anche se il nome non scompare dai cataloghi delle eresie.

I successi delle missioni in Oriente

Più fruttuosa e durevole fu la missione in Oriente, dove si giunse ad un'epoca di fioritura quando in Occidente la religione di Mani era già tramontata. Le cause vanno ricercate anzitutto nella diffusione dell'islàm, che pose fine al predominio zoroastriano e cristiano, ma per quanto riguarda l'Asia centrale, anche in altre situazioni politiche e religiose. Alla fine del secolo VI si arrivò ad uno scisma, quando le comunità situate al di là dell'Oxus (dette dénawàr, "devote") si dichiararono indipendenti dall'archegòs di Babilonia; solo all'inizio del secolo VIII si pervenne ad una riunificazione. Sotto i califfi Omayyadi (661-750) il manicheismo fu nuovamente tollerato, in parte come religione di moda dei ceti intellettuali, ma sotto gli Abbasidi (dal 750) la situazione cambiò. Il punto focale della diffusione rimase perciò l'Asia centrale. Essa prese l'avvio con la missione nell'Iran orientale ancora ai tempi di Mani, soprattutto con l'apostolo Mar Ammò in Partia e in Corasmia. Il centro della missione successiva fu soprattutto la Sogdiana. Seguendo la via della seta lungo il Turkestan si raggiunse la Cina. I primi sacerdoti manichei (sogdiano mozak, cinese muche) fanno la loro prima apparizione alla corte imperiale sotto l'imperatore Kao-tsung (650-683). L'imperatrice Wu (684-704) accolse il primo vescovo manicheo Mihr-Ohrmazd, che probabilmente tradusse anche in cinese alcuni testi manichei.In Cina i manichei dovettero competere con i cristiani nestoriani, i zoroastriani e i buddhisti, tre religioni che erano considerate proprie "dei barbari occidentali". Numerosi editti (a cominciare dal 732) ci fanno conoscere quanto fosse incerta la posizione della religione di Mo-mo-ni, la quale aveva adottato anche la terminologia buddhista e taoista, per farsi capire dall'ambiente. I suoi avversari più accaniti erano i sapienti confuciani. Nell'anno 843/844 scoppiò contro di essa (e contro il buddhismo) una persecuzione sanguinosa, dalla quale non le fu più possibile riaversi. La sua storia successiva nel "Regno di Mezzo" si coglie attraverso quella delle società segrete (setta della nuvola bianca o del loto bianco, religione della luce), e questo e chiaramente un segno della sua forte "sinizzazione". Solo nel sud (Fukien) sono sopravvissuti alcuni seguaci del manicheismo fino al XVII secolo (vedi sopra); essi vennero denominati "adoratovi vegetariani dei demoni".

La posizione raggiunta dal manicheismo in Cina nei primi tempi e collegata al grande influsso che ebbe nel Turkestan, dove la propaganda manichea ottenne il suo successo più splendido nel 763 con la conversione del sovrano degli Uiguri. II manicheismo divenne così per la prima ed unica volta una religione di stato. Anche dopo la caduta del (primo) regno uigurico nell'anno 840, ad opera dei Ghirghisi, il manicheismo non perdette la protezione accordatagli da alcune frange della nobiltà uigurica e sopravvisse perciò, assieme al buddhismo e al cristianesimo, nei piccoli stati che vennero a formarsi nel bacino del Tarim, soprattutto nell'oasi di Turfan, come indicano i ritrovamenti archeologici. Sopra. L'invasione dei Mongoli nel XIII secolo pose fine anche a questo capitolo della storia imponente delle chiese e della missione dei manichei.

Mani ha voluto dare grande importanza alla fissazione per iscritto delle sue dottrine e delle norme di comportamento, per non cadere negli errori di coloro che egli ha riconosciuto come suoi predecessori, ossia Buddha, Zoroastro e Gesù, che non hanno fatto nulla al riguardo. Pertanto egli non solo ha creato accanto all'alfabeto siriaco-babilonese (in estranghelo) un nuovo tipo di scrittura, che fu ulteriormente sviluppato dai suoi discepoli, ma ha anche composto alcune opere alla cui realizzazione calligrafica ha posto grande attenzione. L'alta qualità dei libri e dell'arte grafica, divenuta proverbiale, risale allo stesso Mani. Per lui una prerogativa della sua religione è il fatto di aver scritto la stia "sapienza nei libri sacri, in modo che non <la> si muti <dopo di> me. Come io l'ho scritta nei libri, così <ho> anche comandato che la si raffiguri. Infatti tutti gli apostoli, miei fratelli, che sono venuti prima di me, <non hanno scritto> la loro sapienza (sophia) come l'ho scritta io, <nè hanno> riprodotto la loro sapienza con immagini, come l'<ho riprodotta> io. La mia religione (chiesa) [...] fin dai suoi inizi è superiore alle religioni (chiese) che l'hanno preceduta" ( Kephalaia. cap. 154). Nello stesso capitolo si fa osservare che tutte le tradizioni delle religioni precedenti, come gli scritti, la sapienza, le rivelazioni, le parabole e i salmi, sono confluite nella "sapienza" di Mani: "Come un'acqua si aggiunge ad un' (altra) acqua e si trasforma in molteplici rivi, così anche i libri antichi si sono aggiunti ai miei scritti e si sono trasformati in una grande sapienza, di cui non ne è stata proclamata una simile tra tutte le antiche generazioni, I libri, così come li (ho) scritti io, non sono mai stati scritti né divulgati (prima)".

Le varianti dottrinali e il nucleo autentico

Poiché gli scritti originali di Mani sono andati perduti, non ci è ancora possibile stabilire con precisione quale fosse il suo sistema dottrinale primitivo e autentico. Conosciamo finora soltanto una certa varietà - o delle varianti - della dottrina manichea, tramite i testi che ci sono pervenuti in diverse lingue. Tali varianti. tuttavia, nella lingua e nel contenuto rivelano un certo adattamento a diversi ambienti, dovuto agli interessi missionari che le ispirano: cristiano, iranico-zoroastriano, paleoturco, buddhista o taoista. Non è chiaro se si tratti soltanto di traduzioni o di una cosciente trasposizione della dottrina in un altro ambiente linguistico e culturale. E' quasi certo che nelle tradizioni iraniche si è conservato molto materiale che si può far risalire all'epoca della prima comunità, dal momento che le concezioni che cí vengono trasmesse nei Kephalaia o nel Codice Mani di Colonia possono rispecchiare il pensiero autentico della "comunita primitiva". Anche se in questo senso emerge chiaramente il contributo cristiano-gnostico alla dottrina di Mani, giunto a lui con la mediazione dell'ambiente siriaco-mesopotamico, soprattutto tramite il giudeo-cristianesimo eretico dei gruppi battisti, non va dimenticato tuttavia che la struttura di fondo di tutto il sistema resta iranico-zoroastriana. Benché il rivestimento latino-cristiano, evidente in Agostino, come pure la versione che ne hanno fornito gli autori arabi, o la "trasformazione" cinese-buddhista o cinese-taoista, lascino intravedere chiari "perfezionamenti", analisi più approfondite mostrano che anche in queste tradizioni si sono conservate alcune idee di fondo che sono autenticamente manichee, più di quanto si fosse disposti ad ammettere in passato.

Cosmologia e Soteriologia

Il fondamento della dottrina di Mani è costituito da un lato dal dualismo tra spirito e corpo, luce e tenebre, bene e male, e dall'altro dallo schema iranico delle tre età della storia salvifica: quella in cui luce e tenebre sono divise, quella in cui sono fuse insieme e infine quella in cui sono nuovamente distinte, con il ritorno allo stato originario. Inserito in questo dramma cosmico con procedimento parallelo si svolge il processo salvifico, vale a dire la liberazione della luce dalle tenebre. Tutta quanta la cosmologia, dunque. è posta al servizio solo della soteriologia, e anzi si attua solo per questo fine. Il cosmo, la terra e l'uomo sono coinvolti in un processo universale che ha come fine la liberazione di Dio attraverso Dio stesso e in cui l'uomo rappresenta un, strumento decisivo per raggiungere lo scopo. Attraverso il discernimento o la "conoscenza" (gnosis) di questo processo universale e una condotta corrispondente l'uomo, in quanto portatore potenziale di luce dell'"anima vivente" o del "Se"), è posto in grado di raggiungere la "liberazione".

Regno della Luce e il Regno delle Tenebre

Il punto di partenza è costituito dai due mondi. rispettivamente della luce e delle tenebre, del principio del bene e del principio del male, contrapposti l'uno all'altro in maniera indivisa e originaria. Il signore del Regno della Luce, situato a nord, porta diversi nomi: "Padre della Grandezza", "Primo Padre", "Re del Paradiso della Luce", "Dio della Verità", Zurvàn (che è il dio "Tempo" di una tradizione iranica) e altri. La sua natura consiste in una quaternità o "Tetrade": Dio, Luce, Forza e Sapienza; la sua forza si manifesta in cinque proprietà spirituali, o ipostasi, "membra" o "mondi": Intelligenza, Pensiero, Intenzione, Riflessione, Ragionamento. A queste si aggiungono numerosi Eoni e mondi di luce. Dal lato opposto si colloca il Regno delle Tenebre, situato a sud, chiamato spesso con la parola greca hyle, formato anch'esso da un re e da cinque "mondi": Fumo, Fuoco, Vento, Acqua torbida, Tenebre (descritti anche come modi negativi in cui si esprime la facoltà intellettuale del Dio della Luce: Intelligenza tenebrosa ecc.). Agitate dalla propria irrequietezza, le tenebre (hyle) giungono ai confini della luce e dalla loro profondità intraprendono una lotta invidiosa con il mondo luminoso. Queste sono le premesse da cui deriva lo stadio successivo della "mescolanza".

Dal "Grande Spirito" alla creazione del cosmo

Il "Padre della Grandezza" nel corso di questa lotta con le tenebre crea tre "evocazioni", che costituiscono l'armatura con cui il mondo della luce agisce in questo processo universale. Anzitutto viene prodotto il "Grande Spirito" o la "Sapienza" (sophìa), da cui deriva la "Madre dei Viventi". Quest'ultima a sua volta evoca l'"Uomo Primordiale" o, secondo la versione iranica, il dio "Ohrzmid", che è armato di cinque elementi, "abiti" o "figli": Etere, Vento, Luce, Acqua e Fuoco. Questa Pentade viene detta anche "Anima Vivente", "Anima della Luce" o nei testi iranici "Sé Vivente/Luminoso". Nella lotta contro le forze delle tenebre l'Uomo Primordiale soccombe e cede la sua "quintuplice anima" al mondo degli inferi. Per salvare l'Uomo Primordiale il Padre prepara una seconda "evocazione" che è costituita dalle figure dell' "Amato (o Amico) delle Luci", del "Grande Architetto", e dello "Spiriti Vivente". Ouest'ultimo a sua volta ha cinque figli o "dei": l'"Ornamento di Splendore", il "Re d'Onore", "Adamas-Luce", il "Re di Gloria" e "Atlante" o il "Portatore". Inviando un "Appello" per risvegliare l'Uomo Primordiale, al quale questi reagisce con -Risposta- (Appello e Risposta fOrmano assieme il "Pensiero della Vita"), lo "Spirito Vivente" inizia la stia opera salvifica clic termina con la sottrazione de111.0mo Primordiale alle tenebre, con l'aiuto della "Madre dei Viventi". Questo processo costituisce il modello della salvezza successiva di Adamo e per conseguenza di ogni uomo credente. Poiché tuttavia i cinque "figli" dell'Uomo Primordiale sono rimasti in potere delle tenebre, il processo non è ancora giunto alla sua conclusione. Per la loro liberazione lo "Spirito Vivente" in quanto dio creatore pone in atto la creazione del cosmo. Questa avviene per mezzo degli Arconti che in base alla luce da loro ingoiata, formano il materiale di cui sono tatti gli astri, il cielo e la terra. Il mondo pertanto e costituito da parti di luce e parti di tenebre. Si parla di dieci firmamenti e di otto terre. Per conservare quest'ordine cosmico entrano in azione i cinque figli dello Spirito Vivente, a ciascuno dei quali e affidata la custodia di un settore dell'universo.

Per realizzare la liberazione delle parti di luce si pone in movimento il cosmo. A questo scopo segue la terza "evocazione", la cui figura principale e rappresentata dal "Terzo Inviato" o "dio del Regno della Luce". La sua residenza e il Sole e le sue figlie sono le dodici Vergini che formano lo Zodiaco (che nel suo aspetto femminile è detto anche al singolare la "Vergine della Luce"). Egli pone in movimento il meccanismo della purificazione della luce mediante le ruote del Fuoco, dell'Acqua e del Vento. Per accogliere le parti di luce liberate egli crea la "Colonna della Gloria (o dello Splendore)". detta anche "Uomo Perfetto", che corrisponde alla Via Lattea. Attraverso di essa le parti di luce salgono sulla barca luminosa della Luna, la quale le trattiene con sé fino alla sua pienezza (Luna Piena), per trasferirle poi quando si svuota (Luna Nuova) sulla barca luminosa del Sole, con la quale esse raggiungono il "Nuovo Eone", creato dal "Grande Architetto". Per sottrarre alle forze tenebrose (gli Arconti) la loro luce, il "Terzo Inviato" si mostra loro nudo nel suo aspetto maschile e femminile, provocando rispettivamente agli Arconti maschi il versamento del loro seme e a quelli femmine un aborto. Lo sperma degli Arconti cade da un lato sulla terra arida e fa germogliare gli alberi e dall'altro cade nel mare e genera un mostro marino che viene sconfitto da "Adamas-Luce" (si intravede qui il motivo della lotta contro il drago). Anche gli aborti degli Arconti femmine cadono sulla terra, diventano demoni (Ahrmén e Az) e divorano i frutti delle piante, ossia i semi delle tenebre già mescolatisi alla luce; essi si uniscono tra loro e generano il mondo animale. Le parti di luce sono quindi presenti sulla terra negli animali e nei demoni, ma soprattutto nelle piante.

La lotta tra le Tenebre e la Luce

Poiché la potenza delle tenebre non vuole cedere definitivamente le parti di luce, tenta di legare saldamente il "Terzo Inviato" con una contro-creazione. Da una coppia di demoni, Saklas (o Saqlòn) e Nebroél (o Namraél) secondo l'"immagine" maschile-femminile del Terzo Inviato viene creata la prima coppia umana di Adamo ed Eva, dopo che quelli hanno inghiottito tutti gli altri dèmoni, in modo da accogliere in sè la luce che era rimasta in essi. Dalla sorte del primo uomo (terrestre) dipende tutto il resto. Il Terzo Inviato evoca "Gesù il Luminoso" (in persiano detto anche "Dio di grande Intelletto") e lo invia ad Adamo, per illuminarlo su tutte le cose e condurlo alla "conoscenza" (gnosis) salvifica. Viene vanificata così ancora una volta l'intenzione delle tenebre di trattenere stabilmente la luce. Per salvare l'umanità futura "Gesù il Luminoso" evoca l'"Intelletto Luminoso", il "Nous-Luce", che è il padre di tutti gli apostoli; mediante il messaggio liberatore di quest'ultimo egli entra in tutti gli uomini che attendono di essere salvati. Con l'aiuto delle sue cinque "membra", che corrispondono alle cinque proprietà del "Primo Padre" e a quelle dell'anima dell'Uomo Primordiale, l'anima addormentata dell'uomo prende coscienza di se stessa e viene rafforzata nella sua opposizione contro le forze tenebrose del corpo e del mondo. Questo processo di creazione dell'uomo nuovo attraverso i doni del Nous-Luce forma il nucleo centrale dell'etica manichea ed è divenuto il tema fondamentale di intere opere letterarie (per esempio del Sermone del Nous-Luce). L'azione salvifica che si compie in Adamo riproduce l'evento primordiale che si è realizzato nell'Uomo Primordiale, ed ambedue costituiscono il modello della salvezza futura di ogni uomo o del suo nucleo divino. In questo modo l'uomo diventa il centro del processo universale. La sua anima o il suo "Sé" è una parte della luce, ossia di Dio, che deve essere salvata; lo spirito (nous o pnèuma) che gli viene inviato con la rivelazione (messaggio) o la conoscenza è l'elemento che realizza questa salvezza. Gli Inni al Sé Vivente e il Sermone dell'Anima, trovati nel Turfan, documentano efficacemente il ruolo centrale di questo "io" (Sé) divino, la cui conoscenza in tutte le sue espressioni è il fondamento della salvezza. Al contrario, il corpo è l'elemento tenebroso e malvagio, che la morte annienta, mentre l'anima di colui che possiede la "conoscenza" torna (ascesa dell'anima) alla sua origine (il Nuovo Eone, il Regno della Luce) attraverso il cammino che abbiamo descritto sopra. L'anima che non viene destata e resta incosciente rinascerà invece ad una nuova vita sulla terra (trasmigrazione dell'anima).

Manicheismo e gnosticismo

Mani afferma sostanzialmente che l'uomo si salva con la sua conoscenza e la condotta che ne consegue (ascesi). Questa concezione corrisponde perfettamente a quella della gnosi, nella cui tradizione Mani si pone. Lo gnostico è nello stesso tempo Salvandus (un uomo da salvare) e Salvator (salvatore); la retta coscienza porta alla salvezza. Ma il primo passo, il "risveglio dell'anima", si realizza con un evento esterno che può essere un insegnamento, una rivelazione o una lettura. A questo scopo appaiono nel corso del tempo gli "Appellatori" o inviati (apostoli), per incarico del Nous-Luce o di Gesù il Luminoso (due figure che spesso sono identificate tra loro). Benché la loro comparsa nel tempo e nello spazio assuma forme diverse, il loro messaggio è unico, la verità salvifica nel senso in cui la intende Mani. Nei testi manichei vengono spesso menzionati i seguenti apostoli e "fratelli" di Mani, che lo hanno preceduto e nella cui tradizione egli ha voluto collocarsi: Seth(èl), Noè, Enos, Enoc, Sem, Abramo, Buddha, Zarathustra (Zoroastro), Gesù e Paolo. Al termine di questa serie di messaggeri della luce si colloca lo stesso Mani; egli è l'apostolo dell'ultima generazione, il messia annunciato (Paraclito, Usétar, Maitreya) e colui che porta al loro compimento tutte le religioni (chiese). Nelle fonti arabe (al-Bìrùnì, al-Murtadà) egli viene chiamato perciò "sigillo dei profeti", un titolo usato dal Corano. "Questa mia rivelazione dei due principi e i <miei> scritti viventi, la mia sapienza e la mia conoscenza sono superiori e migliori di quelle delle religioni che mi hanno preceduto" (M 5294). Per i suoi seguaci Mani è perciò "salvatore", "messaggero di luce", "colui che risveglia", "animatore della chiesa", "medico" (dell'anima), "illuminatore" (greco phostèr), addirittura un "dio" (bag) come gli altri "dei della luce" del pantheon manicheo, il "dio della luce, il Buddha" (in paleoturco e in sogdiano). La letteratura innica e liturgica abbonda di questi attributi.

E' singolare il ruolo che viene attribuito a Gesù nel sistema di Mani. Egli ne è uno degli elementi essenziali, ma la sua persona risulta suddivisa in molte figure, che si possono ridurre almeno a tre. Vi è anzitutto "Gesù il Luminoso", inteso come Dio salvatore, di cui già abbiamo parlato, che costituisce una parte della terza evocazione; nel manicheismo nordafricano egli si identifica perciò con il Terzo Inviato. Una seconda forma è quella che le fonti latine in Agostino presentano come il "Gesù sofferente" (Jesus patibilis), simbolo dell'anima sofferente (ossia delle parti di luce disperse nel mondo), la quale soffre nella materia (hyle) come il Gesù crocifisso (la cosiddetta "croce della luce"). La "crocifissione" a questo modo perde completamente i suoi tratti storici e viene intesa in senso puramente cosmologico: il processo universale (per quanto riguarda la sorte dell'anima) è una passione di Dio che salva se stesso. Quest'idea è gia presente nel Codice Mani di Colonia. Anche nelle fonti copie si parla di Gesù come "bambino", che rappresenta l'anima bisognosa di salvezza. Il manicheismo orientale ha coniato perciò l'immagine di "Gesù Bambino", non tanto però per indicare le sue sofferenze, quanto in corrispondenza perfetta con i canoni della religione iranico-zoroastriana, per significare la sua volontà salvifica vittoriosa. Infine, il Gesù storico-terreno in quanto predecessore di Mani è un apostolo della luce e pertanto un inviato del Nous-Luce o di Gesù il Luminoso. La vita di Gesù viene ricordata in diverse maniere, secondo i racconti del Nuovo Testamento, ma non assume alcun rilievo particolare, poiché il destino di Gesù equivale a quello degli altri apostoli. La crocifissione non ha alcun valore salvifico in senso cristiano. Quando Mani nelle sue lettere, ad imitazione di Paolo, chiama se stesso "apostolo di Gesù Cristo", intende riferirsi anzitutto a Gesù il Luminoso che ha una funzione salvifica nel contesto del Terzo Inviato. La prassi missionaria naturalmente ha presentato diversamente la cosa.

La liberazione della luce

La fine di tutto il dramma della storia universale tripartita sopraggiunge quando si compie in certo qual modo la liberazione della luce. Si realizzano allora gli eventi descritti anche dal Nuovo Testamento (Matteo 24 sg. e paralleli): appare Gesù come re, si compie il giudizio universale e si dissolve il mondo materiale con un incendio che dura 1468 anni, con il quale vengono liberati gli ultimi elementi di luce che ancora restano imprigionati nella materia. Le tenebre o hyle sono ridotte ad una specie di palla (bolos) che viene incarcerata perché non debba ancora una volta originarsi il mondo. La comunità però si è divisa sulla questione se tutte le parti di luce presenti agli inizi ritornino veramente allo stato originario o se alcune di esse non rimangano mescolate con le tenebre e il peccato. Questo problema è comunque legato ad un altro: se il Regno della Luce e quindi Dio stesso ritornino veramente nel loro stato di perfezione.

LA "CHIESA" MANICHEA E I SUOI RITI

Gli "eletti" e gli "uditori"

La "chiesa" fondata e organizzata da Mani è l'ultima e definitiva comunità di salvezza. Il suo compito fondamentale è di accogliere in sé la luce che si trova nel mondo ("l'anima vivente"), cercando da un lato di evitare di tormentarla ulteriormente e dall'altro di purificarla e farla tornare al suo stato originario. Poiché la condotta ascetica legata alla dottrina dualistica può essere attuata solo in modo imperfetto e da pochi, ne consegue che la comunità resta divisa in due gruppi. Il suo nucleo fondamentale è formato dagli "eletti" o "perfetti", detti anche "giusti" O "veritieri", attorno ai quali gravita il vasto gruppo degli "uditori" o "catecumeni". Solo dagli "eletti" provengono i membri della gerarchia voluta da Mani: l'archegòs o "capo della chiesa" (successore di Mani), i dodici apostoli o "maestri", i 72 vescovi o diaconi, i 360 "anziani" o sacerdoti e i semplici eletti. Per determinate funzioni vi erano predicatori, scrittori, cantori e maestri di coro. Le donne potevano far parte del gruppo degli eletti ma non potevano esercitare alcun ufficio gerarchico. La vita monastica, forse per influsso buddhista, è divenuta l'assetto più normale assunto dalla chiesa manichea in Asia centrale e in Cina.

Le concezioni etico-morali sono condizionate completamente dal dualismo. Il corpo e il mondo terrestre sono cattivi e sono l'origine e la sede del peccato. Il peccato consiste nell'essere coinvolti nelle tenebre, ossia nel mondo terrestre. L'anima è senz'altro innocente, buona e pura, ma senza l'assistenza dell'"Intelletto luminoso" (Nous) o dello Spirito è inerme ed esposta alle forze delle tenebre nella forma del corpo e delle sue cattive qualità (odio, miscredenza, concupiscenza, ira, ottusità). Essa, inoltre, ha bisogno di venir sostenuta dagli ordinamenti e dai comandamenti della chiesa. Perciò, quando si entra a far parte della chiesa manichea, il peccato viene cancellato. L'illuminazione che si riceve dal Nous-Luce elimina gli ostacoli che il corpo frappone all'anima. I manichei descrivono questo processo con l'immagine biblica dell'uomo vecchio e dell'uomo nuovo: quest'ultimo viene ripristinato con l'osservanza dei comandamenti. Se si verifica una ricaduta, nel senso che il corpo riprende il sopravvento, l'anima può tornare ad essere innocente e pura con un semplice pentimento (metànoia); la confessione è divenuta perciò un'istituzione importante del manicheismo. Solo il peccato che consiste nell'opporsi espressamente alla conoscenza salvifica, ossia all'illuminazione del Nous-Luce, porta inesorabilmente alla caduta definitiva nelle tenebre (hyle). Il peso che viene conferito alla forza del peccato (che ha la sua origine solo nel corpo) e la possibilità di una ricaduta distinguono la dottrina di Mani dalle altre scuole gnostiche.

Gli eletti e i "tre sigilli"

Si può capire facilmente come l'ideologia di una rigorosa rinuncia al mondo possa condurre la comunità ad una doppia morale. Solo un gruppo ristretto è in grado infatti di rispondere senza compromessi alle esigenze severe dell'etica manichea, sostanzialmente negativa, il cui principio fondamentale è il raggiungimento della salvezza tramite la rinuncia. Gli eletti sono coloro che rappresentano autenticamente e coerentemente la dottrina e la morale. Essi sono posti sotto i cosiddetti "tre sigilli della bocca, della mano e del seno" (signacula oris, manus et sinus) , ossia devono trattenersi rigorosamente dal gustare la carne e il vino, dalla menzogna e dall'ipocrisia, dal danneggiare la natura con il lavoro e il commercio sessuale. È proibito maltrattare gli animali, danneggiare le piante (il manicheo cammina perciò con gli occhi bassi), inquinare l'acqua, perché la luce o l'"anima vivente", presente in queste realtà, non venga "turbata". I "perfetti" devono dedicare la loro vita solo alla religione o alla chiesa e alla missione. Sono prescritti lunghi periodi di digiuno (fino a trenta giorni) e un solo pasto vegetariano al giorno. L'ideale di vita dell'eletto è quello dell'"itinerante", che si pone al servizio della dottrina.

Poiché non era possibile affrontare questo tipo di vita senza l'aiuto di altre persone, era indispensabile che i laici si mettessero al servizio degli eletti. Gli "uditori" o catecumeni dovevano provvedere alle loro necessità, come il nutrimento e il vestito. Questo servizio costituiva una buona azione ("elemosina"), ma richiedendo un lavoro portava al peccato. Questo peccato veniva loro perdonato da parte degli eletti, ma la loro liberazione, ossia la liberazione della loro anima, veniva differita nel tempo. Potevano cioè rinascere in una pianta (piena di luce) oppure in un eletto (cfr. Kephalaia, capp. 99 e 115). I laici erano dunque accolti nella religione manichea, ma in misura limitata. Essi dovevano osservare dieci norme di condotta: il matrimonio monogamico, evitare la lussuria, la menzogna e l'ipocrisia, l'idolatria e la magia, il furto e l'uccisione degli animali, non dubitare della religione e non tralasciare la cura degli eletti. Solo gli autori arabi (lbn an-Nadìm) affermano che essi e gli eletti occultavano la loro religione (reservatio mentalis) quando si scatenavano le persecuzioni.

Le pratiche rituali e la vita della comunità

Poco nota e la prassi cultuale, come pure in genere la vita della comunità. Poiché solo la conoscenza porta alla salvezza, ogni rito esteriore viene respinto in quanto non necessario. I sacramenti cristiani sono istituzioni delle tenebre e quindi vanno rifiutati. Il culto perciò consiste principalmente nella recitazione di inni e di preghiere, nel canto di salmi, nelle letture di scritti, nella musica, nei digiuni e nelle feste. Gli eletti dovevano recitare sette preghiere o inni al giorno, gli uditori soltanto quattro. I testi ritrovati ci fanno conoscere quanto fosse ricco il repertorio della poesia liturgica. I manoscritti illustrati del Turfan ci permettono di farci qualche idea sulla vita della comunità locale. Le molteplici norme sul digiuno non sono ancora del tutto chiare, ma vengono previsti "cinquanta giorni del Signore (domeniche)" all'anno per il digiuno degli uditori e altri cinquanta (i lunedì?) per gli eletti (cfr. Kephalaia, cap. 109). Vi sono poi i trenta giorni di astinenza prima della festa del Béma e altre prescrizioni per determinate occasioni o feste, come ad esempio per i sette giorni di commemorazione dei martiri (detti in turco feste yimki). Al centro della giornata si svolgeva l'unico pasto (la "tavola") che gli eletti consumavano in comune e che costituiva un particolare "mistero", poiché tendeva alla purificazione della luce. Venivano consumati vegetali in cui si trovava nascosta la luce (per le motivazioni mitologiche: cetrioli, meloni, pane di frumento; e si beveva acqua o succhi di frutta. Ingerendo questi cibi, la luce che in essi si trovava, ossia "l'anima abbattuta, uccisa, oppressa, assassinata", veniva liberata dalle tenebre in cui era immersa, veniva depurata e purificata e concentrata nell'eletto (come in un processo di distillazione). Come ci dice Agostino, l'eletto "con il suo sussurrare nella preghiera o con un colpo sprigionare degli angeli o anzi delle particelle divine: queste particelle del Dio altissimo e vero resterebbero impigliate nella frutta, se non venissero liberate con il dente e lo stomaco dei santi eletti" (Confessioni III, 10). Questo pasto veniva curato e preparato dagli uditori come un'"elemosina"; il peccato che essi in tal modo commettevano veniva loro perdonato. Gli eresiologi cristiani hanno interpretato questo pasto degli eletti come la celebrazione eucaristica dei manichei.

La festa principale era quella del Béma, che veniva celebrata in febbraio o in marzo per commemorare la morte di Mani; veniva perciò a coincidere approssimativamente con la Pasqua cristiana, di cui è stata considerata come la controparte (ascesa di Mani nel Regno della Luce). Essa veniva preceduta da un digiuno di trenta giorni e da una confessione degli eletti e degli uditori. Nel giorno della festa si collocava un'immagine di Mani su una "cattedra" o "tribuna" e si invocava l'apostolo della luce con inni di lode e di ringraziamento. Durante l'ordinazione dell'eletto si imponevano le mani e si stendeva la mano destra (secondo il costume iranico), e forse aveva luogo anche un'unzione. Qualcosa di simile doveva avvenire anche nel rito di assunzione degli uditori. Si celebrava anche una specie di messa per i morti. "Elemosina e commemorazione" contribuivano al "riposo" del defunto. Va forse collocato in questo contesto il "rito del corpo e dell'anima". L'istituzione della confessione e della penitenza è una particolarità del manicheismo dell'Iran orientale e dell'Asia centrale, la quale si è ispirata probabilmente ad un modello buddhista. Conosciamo anche (in lingua paleoturca e iranica orientale) un formulario per la confessione (Xuàstvàníft) degli uditori e degli eletti. Queste confessioni, con i loro elenchi precisi di peccati in pensieri, parole e opere, sono molto preziose e costituiscono una testimonianza eloquente della profonda pietà dei manichei.

Gli eletti e le Sacre Scritture

Una delle attività principali degli eletti era quella di trascrivere e tradurre i propri libri e i propri scritti, un compito a cui si dedicavano con grande impegno e con uno spiccato senso estetico, seguendo le orme del maestro. I ritrovamenti lo confermano. E' diventato proverbiale il fatto che usassero una buona carta o papiro e un efficiente materiale scrittorio. Le illustrazioni dei loro libri hanno esercitato probabilmente un loro influsso sull'origine della miniatura islamica: "Lo sfoggio dei maniaci nella decorazione delle loro sacre scritture equivale a quello dei cristiani per le loro chiese" (al-Gàhiz). La ricchezza che era necessaria a questo scopo veniva accumulata dalle comunità manichee, soprattutto in Oriente e nonostante l'ascesi che esse praticavano, raccogliendo capitali sotto forma di obbligazioni. "Chi presta ad usura non ferisce la croce della luce" (Agostino, Enarr. in Psalmos 140,12). I ricchi mercanti manichei, che risiedevano nei centri commerciali lungo la Via della Seta, formavano il sostegno economico della comunità. Vi erano poi le fondazioni istituite dai nobili, soprattutto negli insediamenti dell'Asia centrale. Bisogna aggiungere anche che i manichei erano abili narratori di storie affascinanti, e sapevano mettere al servizio della loro propaganda il patrimonio folkloristico della loro tradizione; in questo senso sono stati dei buoni mediatori tra l'Oriente e l'Occidente. Sotto quest'aspetto il manicheismo sopravvive ancora nelle fiabe e nelle leggende dell'Europa.


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