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LUPI E LICANTROPI – Tra miti e leggende nell’età medievale

Creato il 30 settembre 2015 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali
Lupo mannaro di Lucas Cranach il vecchio, 1512 circa, incisione, Gotha, Herzogliches Museum.

Lupo mannaro di Lucas Cranach il vecchio, 1512 circa, incisione, Gotha, Herzogliches Museum.

di Riccardo Alberto Quattrini.

“Si può passar sopra a un morso di lupo, ma non a un morso di pecora.”
James Joyce, Ulisse, 1922

Sospinti ai margini del loro habitat naturale dalla crescente antropizza-zione dell’ambiente, branchi di fiere affamate terrorizzano città e villag-gi. Ma le belve “quotidiane” non sono le sole presenze inquietanti che popolano l’immaginario dell’uomo medievale.

In bocca al lupo” è un augurio scherzoso anche se l’origine del modo di dire non è chiara, come altre analoghe espressioni che hanno per origine il lupo. Vi sono davvero molte interpretazioni di questo termine. Che esso sia usato in senso scaramantico per dire “buona fortuna” è ben noto ma le sue origini sono più incerte. Una prima interpretazione vuole che la frase derivi  dal linguaggio di pastori e allevatori per i quali il lupo era temuto più di tutti gli animali a causa della sua voracità per il bestiame  del quale essi si occupavano. Un’altra spiegazione, invece, deriva dai cacciatori che sopprimevano i lupi poiché ritenuti pericolosi per gli umani. In questo caso dire “in bocca al lupo” significava augurare “buona caccia”. Sempre riguardante la caccia sarebbe la spiegazione dell’espressione secondo la quale chi andava a cacciare il lupo doveva avvicinarsi e quindi metaforicamente  “mettersi nella bocca del lupo”. A questo augurio avrebbe senso rispondere “crepi il lupo” poiché per affrontarlo ci voleva molto coraggio e fortuna. Altri pensano che il detto derivi dal greco per assonanza ovvero: “prendi la retta via” e rispondere “la prenderò”. Un’ennesima interpretazione prende spunto dalla storia di Roma: Romolo e Remo vennero salvati dalla lupa. Così, se qualcuno rivolge l’espressione all’altro, si augura fortuna. Anche in questo caso la risposta “crepi” o “crepi il lupo” non avrebbe senso poiché l’animale sarebbe considerato “la salvezza”. A sentire certi  animalisti ed etologi. Una caratteristica del suo modo di vivere è la chiave del suo riscatto. Sì, perché il protagonista di fiabe e leggende è solito costruire la sua tana in luoghi sicuri e segreti tanto che riuscire a trovarne una, non è roba da tutti i giorni. Per istinto sposta i propri cuccioli in bocca, soprattutto quando avverte un pericolo vicino. I piccoli tenuti dunque dalla mamma in quel modo così delicato ma nel contempo saldo, sono protetti al massimo. Ecco per-ché augurare a qualcuno di trovarsi tra le fauci di questo splendido animale è un mo-do per auspicargli di essere protetto e guidato proprio dallo spirito forte e maestoso del lupo. Allora cosa rispondere a quell’augurio? «Lunga vita al lupo» oppure «Evviva il lupo» oppure un semplice «Grazie».

Ma la caccia al lupo, nei secoli, è sempre stata ai primi posti da parte dell’uomo per necessità. Durante le guerre nelle campagne, i coltivi e i pascoli abbandonati sono di nuovo diventati, come secoli prima, il regno incontrastato degli animali selvatici: lepri, caprioli, cervi, cinghiali, volpi… Hanno tutti rioccupato quegli spazi che gli uomini avevano loro conteso con i dissodamenti. Ma le guerre hanno fatto anche altro: scomparse le pecore, scomparsi i buoi, sparito il bestiame domestico e con esso una rete fondamentale della catena alimentare degli animali da preda.  E’ così che branchi di lupi si presentano sotto i fossati delle città, ululando il loro agghiacciante canto di fame. Di notte, alcuni di essi riescono a penetrare dentro l’abitato e, se trovano qualcuno addormentato sotto i portici o sul pianale di un carro, per lui è la fine. Così co-me lo è per quelle persone che sono meno pronte a scappare: le donne e i bambini prima di tutto. E nemmeno basta, perché qualche volta i lupi si intrufolano dentro le abitazioni, e allora per i bambini sorpresi nella culla non c’è scampo.
«Non lo crederebbe se uno non lo avesse visto con i propri occhi come è successo a me», racconta Salimbene de Adam un frate di Parma vissuto intorno al 1200, commentando quegli anni da incubo.

Quello con il lupo non è solo l’“incontro ravvicinato” che l’uomo medievale può ave-re con gli animali selvatici (fa parte della quotidianità il rapporto con gli animali da cacciare: è usuale quello con la volpe, della quale si devono temere solo i danni economici, non le aggressioni agli umani), ma è sicuramente il più traumatico e il più paventato: che nell’immaginario collettivo religioso si sia assimilata al lupo la figura dell’eretico la dice tutta sulla sovrapposizione di due nemici antropologici dell’umanità.

Ma non è sempre stato così. L’antichità classica ha attribuito, sì, al lupo uno statuto di negatività, ma lo ha circoscritto alla sfera del rapporto con gli animali domestici, qua-si mai a quello con l’uomo. L’assalto agli esseri umani era considerato un fatto eccezionale, tutt’al più un segno infausto ma anche , altrettanto, una possibilità remota. Le cose sono cambiate quando è cambiato il clima, quando il ruolo della pastorizia, dell’allevamento, della caccia hanno reso uomini e lupi concorrenti sullo stesso territorio; quando il bosco è diventato una risorsa da sfruttare e da amministrare al meglio e quando i dissodamenti hanno ridotto, anche se parzialmente, l’ambiente vitale dei carnivori. La leggenda di San Sola di Eichstatt (eremita, morto alla fine dell’VIII se-colo), che ordina al proprio asino di uccidere il lupo che minaccia il gregge è la miglior metafora di questo conflitto “economico” fra l’uomo e la bestia feroce e, al tempo stesso, dell’alleanza con l’animale domestico contro il comune nemico. La toponomastica, del resto, dà la misura della quotidiana contiguità tra uomini e lupi: nessun animale ha lasciato tanta traccia sui nomi del territorio quanto il lupo. Monlué (presso Milano) è in origine Monte Lupario, nel Cosentino c’è Lupia e nel territorio di Bolzano Lupicino; Lovaria è nell’Udinese e Lupazzano nel Parmense; presso Siena c’è Lupompesi (lupo appeso – impiccato); i Montelupo sono più d’uno, i Montelupone una schiera, e l’elenco potrebbe continuare per pagine.
La memoria che il lupo lascia nella storia degli uomini medievali è, pressoché di re-gola, antropofaga: non più solo il patrimonio è a rischio, ma la vita stessa. E la frequenza con la quale si ritrova – oltre alla varietà delle fonti che la tramandano – è in-dice di una sinistra fama, probabilmente amplificata ma di certo non inventata.

A metà del IX secolo branchi di lupi – a volte della consistenza di centinaia di capi – terrorizzano l’Aquitania e la Francia meridionale seminando la morte nei villaggi; nel 1116 diciotto abitanti di Carmarthen, nel Galles, muoiono attaccati da lupi e tre anni più tardi analoghi episodi sono registrati in Germania. Di oltre trenta vittime è il bi-lancio degli attacchi delle belve in Franconia nel 1271, destinato a crescere ulteriormente l’anno dopo nei dintorni di Basilea quando tale sorte è riservata a quaranta bambini.

Nel 1422 branchi di lupi affamati entrano in Parigi nottetempo, dissotterrano i cada-veri nei cimiteri e attaccano la gente; quelli di essi che finalmente vengono catturati sono esibiti per le strade, appesi per le zampe. Le aree della città destinate a cimiteri e a depositi di immondizie sono le prime a essere attaccate: succede a Milano nel 1484, quando i lupi entrano nel cimitero dell’ospedale di S. Ambrogio e «caveno per forza il terreno in modo che trovino li corpi morti et li mangieno et stragieno». E succede, nello stesso periodo, a Chartres dove le incursioni notturne si registrano in prevalenza nel quartiere dell’immondezzaio, dove vengono gettati quotidianamente gli scarti del-le macellerie.

Una battaglia, per parte sua, può rivelarsi un formidabile richiamo per queste bestie: è quanto succede presso Somma Lombardo nei primi anni del Cinquecento e intorno a Pavia nel 1527, all’indomani di scontri armati che hanno lasciato sul terreno molti cadaveri insepolti. Del resto, in Bretagna, alla fine del Cinquecento, non accadrà niente di diverso: i morti per la peste, uniti a quelli del brigantaggio di strada, diventano riserve di cibo per le fiere che si muovono in branco e assalgono anche uomini. Anzi, il loro modo di aggredire è così simile alla tattica di attacco di una compagnia militare che fra la gente comune si diffonde la convinzione che non siano lupi ma, in realtà, soldati morti e resuscitati mandati da Dio a punire gli uomini.

Per far fronte all’emergenza-lupi le comunità si organizzano in vario modo: scavando trappole – le fosse luparie, attestate prima del Mille e che danno il nome a località come Lovere, in Lombardia -; proteggendo i cani da pastore (nelle leggi bavare, alemanne e frisoni essi danno diritto a un indennizzo maggiore rispetto agli altri cani in caso di uccisione); costruendo ospizi lungo le strade per ospitare i viandanti sorpresi dalla notte e che perciò sarebbero facile preda delle bestie (come nel caso dell’ospizio costruito nella prima metà del X secolo a Flixton nello Yorkshire); bonificando le strade principali. Lo stesso fece nella seconda metà del X secolo Berengario II ordinando di fare della strada che attraversa la Valtellina e porta a Pavia un’area “delupizzata”; rafforzando le mura di difesa della comunità.

E’ quanto accadde, ad esempio, nel 1463, quando in Lombardia le comunità di Zeze, Fino, Ogiate e Castellanza del Baradello organizzano una colossale caccia grossa col-lettiva con balestre e altre armi da guerra per “haver et occidere lo lupo rapace qual non vivendo secondo sua natura devora li cristiani”. Chi riesce a catturarne qualcuno diventa poco meno che un eroe e ha diritto a tangibili riconoscimenti. A Milano nel 1402, i proventi del dazio su alcune attività (fra le quali il postribolo pubblico) sono destinati alla manutenzione delle difese contro le bestie feroci e alla ricompensa per chi cattura volpi e lupi. Nella stessa città, nel 1462, Francesco Sforza raddoppia la taglia prevista per chi cattura i lupi che infestano la Martesana, e chi riesce a prendere una bestia che abbia assalito qualcuno ha diritto a un compenso addirittura quadruplicato. A Salò, nel 1475, Domenico Baruzi di Sabbio Chiese si guadagna l’esenzione perpetua dalle tasse, conseguenza monetizzabile del conclamato riconoscimento, per lui, di prode cacciatore “interfector lupi homicidae”.

Quando armi e palizzate non sono sufficienti, non resta che cercare aiuto da un santo a cui votarsi. E per avere protezione dai lupi la scelta è ampia. Ben lungi dall’esaurirsi nella sola figura archetipica – per questa particolare grazia – di France-sco d’Assisi, la Cristianità dispone  di una buona legione di santi “antilupo”, da Santa Radegonda di Poitiers, regina dei Franchi nel VI secolo, al Beato Torello da Poppi, venerato nel Casentino dal XIII secolo; da San Defendente (un nome un programma), il cui culto è diffuso in Italia Settentrionale dal XIV secolo, a San Giulio (cui è dedicato a metà Quattrocento un oratorio a Biella con questo scopo.

La caccia al lupo assume gli aspetti di una battaglia feroce già all’epoca di Carlomagno. Il Capitulare de Villis prevede infatti che l’imperatore sia informato periodica-mente del numero di lupi catturato ma, per evitare statistiche gonfiate, è indispensabi-le che siano prodotte, come testimonianza, le pelli delle bestie uccise. Frotario, ve-scovo di Toul, può pertanto inviare una compiaciuta lettera al suo sovrano per informarlo che, ben prima della data prevista per la rendicontazione, lui ha già fatto catturare duecentoquaranta lupi, sotto la sua personale guida. Ogni responsabile di circoscrizione dovrà avere sotto il suo comando due «luparios» incaricati di stanare e cat-turare le fiere e, a ogni maggio, di procedere a una battuta per sterminare i lupacchiot-ti, usando, per questo, cani, esche avvelenate o trappole. Il “lupario” è presente anche in Inghilterra, dove nel 1135 è pagato venti denari al giorno, una somma con la quale però deve anche provvedere al pagamento dei cavalli, dei cani e degli aiutanti. Sempre in questo regno, il condannato all’esilio o addirittura a morte può chiedere di commutare la pena con l’impegno a uccidere un certo numero di belve. E a Santiago di Compostella, negli anni Dieci del XII secolo, il sabato, per chierici, cavalieri, contadini, adunata obbligatoria e, tutti insieme, fuori a caccia di lupi. Le città comunali italiane, per parte loro, impongono vere e proprie taglie sui lupi: dieci soldi per il maschio, cinque per la femmina e tre per il cucciolo, si stabilisce a Siena nel 1262; tre li-re se è preso vivo e una lira e mezzo se è morto, a Mantova nel 1303; dieci soldi l’adulto vivo e cinque quello morto o il lupacchiotto, decretano le comunità della Valsesia nel Trecento, e l’elenco potrebbe continuare a lungo perché disposizioni si-mili sono legioni, fra il Medioevo e l’Età moderna. Per i lupi, a quei tempi, era davvero una vita da cani.

BIBLIOGRAFIA
Delort R., 1987 – L’uomo e gli animali dall’età della pietra a oggi – Laterza, Roma-Bari,
Ortalli  G., 1972 – Realtà e immagine del lupo nel medio evo: la nascita di un mito – Natura e montagna.
1973 – Natura, storia e mitografia del lupo nel Medioevo – La Cultura, Roma


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