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La seconda storietta riguarda invece la performance del capo di un partito. Questi fece un’affermazione pubblica provocatoria e aggressiva nei confronti di un gruppo socio-professionale, cosa che suscitò in molti scandalo e indignazione. Dopo poche ore ritornò sull’argomento ritrattando parzialmente la propria dichiarazione. Il giorno dopo sostenne che la frase incriminata era scherzosa e del tutto priva di intenzioni offensive. In serata affermò che essa conteneva in ogni caso una parte di verità. Il terzo giorno disse che era stato interpretato male. Nel pomeriggio aggiunse infine che si era solo fatto portavoce di un’opinione molto diffusa, che non condivideva. Tuttavia fu per tre giorni alla ribalta dei mass media. La terza storietta ha per protagonista un tycoon dell’arte contemporanea, il quale riuscì finalmente ad aprire nel luogo più prestigioso della capitale la sua nuova galleria permanente, accompagnando l’evento con una campagna pubblicitaria senza precedenti. Mosso dall’intento di rendere davvero popolare l’arte contemporanea, raccolse in lussuosissime sale opere di artisti di tendenze e orientamenti quanto mai diversi, che avevano in comune la caratteristica di non richiedere alcun intervento interpretativo: nella sua strategia infatti, la nuova arte doveva colpire lo spettatore per il suo carattere diretto e realistico. I visitatori della galleria, il cui prezzo d’ingresso era considerevolmente elevato, raggiungevano così il duplice risultato di divertirsi come in un luna park e di partecipare a un rituale elitario.” Ma vogliamo, per favore, iniziare a comunicare veramente?!… Andy Warhol ci offre un bello spunto… Da queste storiette si giunge alla conclusione della trasformazione della comunicazione massmediatica, così apparentemente democratica in ideologia, in qualcosa che trasforma tutto in indefinito, in qualcosa in cui gli opposti si mescolano e si confondono, in un contesto in cui tutto può essere contemporaneamente una cosa, il suo contrario e anche tutto quello che ci sta in mezzo. La comunicazione, continua Perniola, abolisce il messaggio, non attraverso il suo occultamento, e quindi rendendolo segreto, ma attraverso un’esposizione esorbitante e sfrenata di tutte le sue varianti. Nel segreto c’è un contenuto da preservare; la comunicazione invece mira al dissolvimento di tutti i contenuti. Lascio Mario Perniola per tornare alle mie letture sulla pop art. La pop art (letteralmente arte popolare) prende il via da un nuovo panorama sociale che coincide con il boom economico sviluppatosi negli USA fra il 1959 e il 1970. Le forme espressive di questo movimento artistico nascono prelevando oggetti e immagini da una realtà che è quella del boom economico, caratterizzata da una forte domanda di beni di consumo, di intrattenimento, spettacolo e cultura che portano all’avanzare di una società sempre più omologata, in modo esponenziale. Erano gli anni settanta, ora siamo nel 2005 e non siamo certo in un periodo di boom economico. Sull’omologazione della società quanto è cambiato? Eppure se ne è discusso tanto…. “Molto rumore per nulla!?” (tanto per citare anche Schakespeare!) Tornando alla pop art Andy Warhol è certamente il più conosciuto fra gli artisti pop. Nella mia riflessione siamo passati dalla comunicazione attraverso le parole alla comunicazione attraverso le immagini, di cui indubbiamente Warhol è maestro. Wharol entra nel mondo della comunicazione passando per la porta della pubblicità commerciale veicolata dai giornali e dalle riviste e lavora con risultati eccellenti nel design pubblicitario. Il commento che fornirà di questa sua prima esperienza è sorprendente: “ Volevano cose originali e poi non erano mai contenti; chiedevano di apportare sempre nuove correzioni finchè veniva fuori un prodotto personale: In profondità cosa significano queste parole? All’origine negli studi in cui si elabora l’immagine pubblicitaria si mettono in gioco troppa creazione e gusto individuale; circola una libertà in dosi eccessive. Ma in definitiva la pubblicità più ancora che prodotta viene subita e consumata con assuefatta passività. E ancora, la pubblicità non è tanto un progetto aperto, passibile di sempre nuove modificazioni, quanto una cosa definita una volta per tutte che poi scorre, si ripete, scompare.” Wharol a questo punto si metterà a lavorare come artista in proprio, ma paradossalmente non lo farà per acquistare maggiore libertà ma, all’opposto per intervenire nella circolazione delle immagini piuttosto che nella loro creazione al fine di assumere in pieno la condizione dell’uomo comune, dell’uomo medio americano e così ottenere una compiuta conoscenza della comunicazione artificiale di massa. La prima conseguenza è il rifiuto dell’invenzione. Warhol rifà ciò che è già fatto, rifà le immagini che stanno sotto gli occhi di tutti per sottrarle all’invisibilità e renderle, per una volta almeno, tanto “vedibili” da farcele scorgere e conoscere realmente. Perché è proprio l’oggetto che ci sta di continuo presente davanti allo sguardo che ci sfugge, che non arriviamo a vedere. Un grande scrittore americano Edgar Allan Poe nell’elaborare questo concetto scrisse uno dei suoi più illuminanti racconti: La lettera rubata. Ciò che è troppo esposto si sottrae alla nostra percezione visiva: nel racconto, la lettera fortemente compromettente, posata con maligna astuzia nella piena visibilità del ripiano di una scrivania, sfugge alle ripetute ispezioni di una squadra esperta di poliziotti. Paradosso, ma poi verità anche troppo giornaliera, esperienza comune. Ci rendiamo conto di una qualsiasi cosa, la vediamo, registriamo la sua presenza secondo la qualità e la quantità di esperienza che mettiamo in atto e spendiamo per scorgerla e per adoperarla. E nel tipo di esperienza, più di quella troppo consapevole conta invece l’esperienza fisica, corporale, insieme a quella inconscia. Ma quale esperienza riusciremo mai a compiere di fronte a un manifesto dell’autostrada, ad un’inquadratura del telegiornale, a una foto stampata sulla pagina di un quotidiano? Minima, se non prossima allo zero. Per avere una giusta visione dell’acquario, è meglio starne fuori, non essere il pesciolino rosso che vi nuota dentro. Ecco la lezione di Wharol: nel rifarla Wharol tira fuori l’immagine dal circuito comunicativo in cui galleggia per renderla, per un momento almeno completamente presente. Qualunque sia il linguaggio utilizzato, dalle parole alle immagini, il problema sembra proprio essere nel circuito comunicativo , nella nostra percezione e nell’esperienza che mettiamo in gioco. E allora forse è nostra la responsabilità , in quanto pesci rossi,di uscire dall’acquario!
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