Si sono passati i limiti non solo politici, ma anche quelli funzionali perché la manovra, con il suo codicillo tra le righe di aumento dell Iva, è il frutto di un’astuzia manovriera in formato elettorale, alimentata però da incapacità e cialtroneria: il prodotto di un declino senile sguaiato e incoerente come il sorriso del premier. Non servirà ad evitarci la tragedia greca. E tuttavia mi domando quale sia il limite che dev’essere superato perché l’indignazione delle parole diventi un fatto concreto e si traduca in un lotta ad oltranza fino alla caduta di questo governo e al ripristino della legalità sostanziale. Sembra che non si sia ancora a questo, che il limite sia sia spostato ancora più avanti e che per ora rimanga ancora un argomento per servizi giornalistici e per mugugni virtuali. E’ abbastanza naturale: a forza di cedere il livello di cedimento tende inconsapevolmente a crescere sempre di più.
Di certo le polveri sono ancora bagnate da quel po’ di euro che ancora consentono a molti di aggrapparsi a un della normalità indotta , fino a che le reti familiari reggeranno, finché si può resistere: meno si cambia e più si ha paura dei cambiamenti, persino di quelli invocati. E infatti è facile rendersi conto che molto della protesta non immagina e non cerca nemmeno un modello alternativo di Paese, ma pensa di poter correggere delle deviazioni che sono in realtà dentro la logica stessa dell’evoluzione liberista, sono la ovvia conseguenza del modello. Ma quando il rivolo dei risparmi si sarà asciugato sarà troppo tardi per recuperare terreno e temo anche troppo tardi per la democrazia perché ci saranno milioni di non rappresentati pronti a seguire qualsiasi bandiera e qualsiasi falsa promessa.
Ho la netta impressione che le variegate “rivoluzioni” più o meno dolci che serpeggiano in questi mesi in Italia e in Europa, si basino sull’espressione dei bisogni alienanti, cioè quelli che nascono dalle promesse non mantenute di una società dell’opulenza, piuttosto che da quelli più generali che affondano le loro radici nell’eguaglianza e nella solidarietà. Forse è una mia impressione, ma credo che la “felicità pubblica” sia ancora intesa, come un patchwork, una collezione di felicità private, quelle fatte balenare dal meccanismo economico e poi negate.
I bisogni indotti creano rivolte, ma pochi cambiamenti, forse l’avvicendamento di qualche faccia, ma non la sostanza: non c’è alcuna verità parziale dentro una bugia generale.