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Ma è vero che “La televisione ha vinto” le elezioni?

Creato il 23 febbraio 2013 da Agnese Vardanega

Tv in piazza Anni CinquantaLa campagna elettorale si è conclusa, ed ha vinto la televisione. Dovevano essere le elezioni di internet e del social web, ed invece i leaders nazionali hanno fatto a gara ad occupare ogni spazio televisivo possibile ed immaginabile, per rispondere a domande che i cittadini (credo) non avrebbero mai posto loro.

Personalmente, però, non mi aspettavo grandi novità sul fronte del web. Non sono una esperta di comunicazione politica, ma ho una qualche esperienza di processi di innovazione. E l’uso del web per fare campagna elettorale rappresenta una innovazione direi quasi radicale, rispetto alle culture organizzative dei partiti europei.

Premesso che il giudizio sul “ritorno in auge” della tv si basa anche sulla sottovalutazione del ruolo delle emittenti locali (di cui molti esperti sembrano ignorare l’esistenza), le campagne elettorali per le scorse amministrative hanno infatti evidenziato tre modi fondamentali di presenza online:

  • quello dei candidati più “importanti”, ovvero i candidati a sindaco dei partiti maggiori nei comuni più importanti;
  • quello dei candidati minori, ovvero i candidati a sindaco dei comuni molto piccoli, e/o dei partiti molto piccoli (anche nei comuni grandi);
  • i modi vari e spesso confusi di tutti gli altri: partiti medio-piccoli nei comuni grandi; partiti grandi nei comuni medio-piccoli; liste civiche, movimenti ecc.

Paradossalmente proprio i primi due, per ragioni completamente opposte, si sono rivelati i meno innovativi.

Il primo in quanto i candidati più importanti, pur avendo un budget consistente da spendere in comunicazione, hanno continuato a rivolgersi alla tv e ai giornali, approfittando della loro visibilità garantita ed indiscussa: video su YouTube che le tv un po’ pigramente riprendono (salvo poi segnalare la mancanza del contraddittorio che un giornalista introdurrebbe); tristi paginette web di comunicati stampa, postati in automatico su Twitter e Facebook, e che i media, sempre pigramente, ripubblicano tal quali. Testi di certo non scritti per gli elettori; ma del resto, tutti sembrano convinti che gli elettori non sappiano (più) leggere.

Siti e profili social destinati comunque a scomparire dopo il voto, e quindi — evidentemente — non certo progettati per facilitare la partecipazione dei cittadini, e neanche la mobilitazione elettorale. Strumenti che servono principalmente ad accompagnare i manifesti, i volantini, le apparizioni televisive, le interviste alle maggiori testate. Il nome del sito non viene quasi mai pubblicizzato sugli altri media: se lo trovate con Google, bene, altrimenti non resta che meditare sulla frase del giorno, preparata per il pastone televisivo.

Il top di questo circolo (vizioso?) fra politica e media è stato raggiunto in queste settimane su Twitter, con i leaders che fra di loro si insultavano, ai giornalisti rispondevano garbatamente, e ai cittadini riservavano poca o nessuna attenzione.

Sul versante opposto, i candidati dei comuni piccoli e piccolissimi da una parte non hanno tanto tempo, fondi e collaboratori, e dall’altra contano sul rapporto diretto con i loro elettori: andare in piazza a fare due chiacchiere non solo è ben più che sufficiente, ma spesso impegna il poco tempo a disposizione (parliamo di sindaci che andranno a prendere mille euro al mese, e non possono permettersi certo di lasciare il lavoro abituale). Hanno tutt’al più il profilo Facebook esattamente come ce l’ho io, e mobilitano amici e parenti — che già da soli rappresentano una discreta percentuale di elettori.

Lo dico però senza alcuna ironia: per quella che è la nostra cultura del web, aprire un sito da sindaco di un paese di 500 anime apparirebbe persino esagerato, come un rinchiudersi in una comunicazione “ufficiale” che sostituisce, anziché facilitare, il rapporto diretto. Senza contare che tanti di questi piccoli comuni non sono neanche raggiunti dalla banda larga.

A sbizzarsi sul web sono stati tutti gli altri: candidati che non avevano alle spalle partiti troppo strutturati o leaders ingombranti; liste civiche locali; movimenti vari. Con pochi mezzi e spesso scarsi risultati sul piano tecnico ed estetico, hanno tentato spesso di sfruttare il web per comunicare con i loro potenziali elettori.

Sarà perché avrebbero avuto difficoltà a comunicare con gli altri , oppure perché hanno scelto di non comunicare attraverso e con i media tradizionali. Comunque si interpreti questa presenza — “artigianale” e/o “populista” — io non posso fare a meno di vederci un sommovimento di pratiche innovative, interessante in quanto è successo che proprio il disordine, e la altrettanto disordinata varietà delle risposte al disordine, abbia prodotto innovazione. La domanda del prodotto nuovo, in questi casi, arriva dopo, quando il prodotto stesso si rivela una soluzione efficace e praticabile per un problema che era ancora indefinito.

Queste elezioni sono state in linea con la Seconda Repubblica, la Repubblica fondata su Porta a Porta, nata cioè con il “contratto” firmato in quella sede e caratterizzata dai riti della politica pop.

Forse il diffuso e disordinato malcontento che si è manifestato in questa campagna elettorale, non solo nei confronti dei pochi leader onnipresenti in tv, ma anche nei confronti della tv e di un marketing elettorale ancora ottimisticamente anni Novanta, avrà delle conseguenze sulla prossima (temo vicina) campagna elettorale.

(Foto: culturaitalia.it)

 


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