Così, di tanto in tanto, passo dai buffet dei social network in cui i lettori giudicano i libri (altrui, e a volte addirittura i propri) per vedere se magari qualcuno ha lasciato uno stuzzichino anche per me. Una volta lì, cerco di non lasciarmi incantare troppo dall’eventuale canto delle sirene dei rari giudizi a cinque stelle (e in questo, l’automatica associazione tra il voto massimo e la faccia di Beppe Grillo aiuta assai), ma, al contrario, assetato di autoanalisi, alla prima bastonata di stroncatura corro davanti allo specchio per osservare l’espressione che la mia faccia prende quando a sollecitarmi le emozioni è la disapprovazione.
Così oggi mi è capitato di fare un salto su Anobii e di schiantarmi contro un vero e proprio miniesercito femminile (e forse anche femminista) pieno di violenta acredine nei miei confronti.
A dare il via è la commentatrice Tantinomi: “Il sig. Vecchiotti poteva evitare di scrivere nei panni di una donna, per di più obesa. Stereotipi relativi al sesso e alle donne over, alle donne che si prendono un uomo solo per il gusto di vincere una sfida interiore, alle donne che si fanno i capi col solo intento di sposarseli, alle donne che se ne fregano dei pareri altrui. Perchè (sic) da uomo non si dedica esclusivamente a pensare e scrivere come un uomo? Ci avrebbe fatto (sic) una figura migliore”.
Continua poco dopo Chiara White: “Se c’è una cosa che mi fa rabbrividire (e di questi giorni è una bella impresa!) è una donna che scrive pretendendo di essere un uomo (come la Mazzantini), ma ce n’è una che mi fa stare peggio: un uomo che scrive pensando di essere una donna!!!! (e qui a me verrebbe solo da far notare che più che ad aver sbagliato io a scrivere il romanzo, è stata lei a sbagliare nell’acquistarlo, visto che in genere io non spendo denaro per qualcosa che già a priori riconosco come causa di orticaria, N.d.R.) Un libro noioso, triste e pieno di false rivalse. E’ come una crema per il viso di scarso valore: scade subito e non lascia effetti, se non quello indesiderato di un forte prurito ed irritazione…”
Raccoglie l’invito Linda: “Eviterò questo libro, ogni tanto lo guardavo in libreria..”, e chiude – almeno per ora – il dibattito Benedetta Colella: “Io l’ho abbandonato dopo poche, noiosissime pagine”.
Non è mio interesse difendere il mio lavoro: se ho deciso di darlo alle stampe è perché sento che racconta me, il mio mondo e quello delle donne e degli uomini che frequento e che lo hanno ispirato, e “La Signorina Cuorinfranti” adempie a questo compito indipendentemente dal fatto di piacere o non piacere a soggetti terzi ; mi preme però manifestare anche un po’ della mia, di irritazione, non nei confronti della stroncatura (che qui, per altro, sembra essere più sociopolitica che letteraria) ma verso questa stigmatizzazione a tutti i costi del soggetto-donna, scialberia oramai superata e stereotipata almeno tanto quanto i miei personaggi.
Se arrogante e presuntuoso appare il maschio che prova a mettersi nei panni della femmina, io trovo ancora più molesta e superba la donna che parla a nome di tutte le altre sue (presunte) simili, facendo di tutta l’erba un fascio (nel senso mussoliniano del termine). Pensare che la Donna esista in quanto categoria a sé, come cosmo, come Universo-Lei, mi sembra una generalizzazione molto più sminuente nei confornti delle femmine di quella che posso fare io raccontando le miserie delle clienti della Farm Centamore.
La donna-Donna, femmina di per sé, esattamente come l’uomo-Uomo, è un falso mito buono per chi, volendo vivere di ideali ed assoluti a tutti i costi, perde l’occasione di godersi la bellezza delle nostre quotidiane pochezze.
Sarebbe bastato leggere “La Signorina Cuorinfranti” senza andare alla esasperata ricerca della Donna, di una rappresentazione astratta, filosofeggiante e fasulla, per rendersi conto che una misera figura, nel romanzo, la fanno tutti i personaggi, indipendentemente da ciò che essi hanno tra le gambe. Poi per carità, magari il libro avrebbe continuato a farvi schifo e a lasciarvi deluse/i, esattamente come il più delle volte a tutti noi fa schifo e ci lascia deluse/i guardarci con gli occhi altrui e vedere solo dei mediocri noi stessi anziché le divinità greche che immaginavamo di essere.
E sì… certo.. è vero, il libro è triste; ma quanto pensate potesse essere allegro, o esaltante, una romanzo il cui intento principale è quello di raccontare – in senso primario e in senso più traslato – la quotidiana esperienza di guardarsi allo specchio?