Ascoltare le lagnanze degli imprenditori è bene, diffidare certe volte è meglio. In Italia, infatti, a fronte di una maggioranza di aziende che può contare soltanto sulle proprie idee, sul proprio capitale e sul proprio lavoro, c’è una platea di aziende che brama per avere qualche sussidio dallo Stato (o dalle regioni o dagli enti locali), e spesso ci riesce, gravando così sul bilancio pubblico.
Provate, per fare un esempio, a entrare in un qualsiasi cinema italiano dotato di schermo 3D, ovviamente pagando un biglietto un po’ più caro del solito, tra i 9 e i 10 euro. Mettetevi comodi, e poi leggete questo passaggio del libro “Mani bucate” (Chiarelettere) del giornalista Marco Cobianchi: “Nel 2008 l’Italia ha proposto all’Unione europea un aiuto ad hoc a favore delle sale che volevano passare alla tecnologia digitale, indispensabile per proiettare film in 3D. L’Europa ha respinto la richiesta, ma ancora una volta l’Italia ha sfoggiato il suo estro giuridico adottando uno schema di sconti fiscali sugli investimenti. Per evitare che la Ue obiettasse che sempre di soldi pubblici si trattava, ha deciso che gli sgravi non avrebbero dovuto superare i 200.000 euro per cinema in tre anni, così da restare sotto la soglia massima oltre la quale è necessario notificare alla Ue la concessione di un aiuto di Stato”. L’operazione “cinema digitale”, sussidiata dal contribuente, che poi si è visto pure aumentare il costo dei biglietti per gli spettacoli 3D, è stata sostenuta pure dal Fondo Media (755 milioni di soldi europei dal 2007 al 2013) e da una quota parte dell’immancabile Fus (Fondo unico per lo spettacolo, in tutto 5,7 milioni nel 2008). E questo è soltanto uno dei mille rivoli in cui si disperde la spesa pubblica, alimentando una presunta “politica industriale”.
A quanto ammontano i sussidi pubblici alle imprese? Una stima complessiva è difficile farla, vista la solita opacità del bilancio dello Stato, soprattutto a livello di Regioni ed enti locali. L’economista Mario Baldassarri, nel 2010, è stato uno dei primi a tentare di fare chiarezza: tra “contributi in conto corrente” e “contributi in conto capitale” usciti dalle casse pubbliche e finiti alle imprese, parlò per il 2010 di 40 miliardi di euro, di cui circa 15 erano indirizzati alle imprese pubbliche come Ferrovie dello Stato, Anas, Poste o le aziende di trasporto locale. Nel 2012, il governo Monti chiese all’economista della Bocconi, Francesco Giavazzi, di censire l’ammontare dei sussidi. Ecco cosa si legge, tra le altre cose, nel suo rapporto: “I trasferimenti a imprese riportati nel Conto consolidato di cassa del settore pubblico ammontavano, nel 2011, a 36,322 miliardi di euro. Amministrazioni centrali e locali erogano una quantità di contributi più o meno simile. Queste cifre comprendono voci molto eterogenee. I dati pubblicati nella relazione del Ministero per lo Sviluppo Economico (MiSE) riguardano invece un sottoinsieme più ristretto, inquadrabile nella disciplina degli aiuti di Stato: circa 6 miliardi nel 2010. Nessuna di queste cifre comprende l’erosione fiscale dovuta a varie agevolazioni concesse alle imprese. La Commissione Ceriani ha stimato che nel 2011 l’erosione ammontasse a oltre 30 miliardi di euro”. Oltre 35 miliardi l’anno, dunque, di aiuti pubblici diretti, visto che quelli indiretti sono ancora più difficili da quantificare. Se poi ci si vuole limitare alle “imprese in senso stretto, cioè che operano sul mercato”, si arriva a circa 10 miliardi l’anno secondo Giavazzi. All’economista – che nel suo rapporto sottolineò pure la scarsa efficacia di questi sussidi a pioggia – fu chiesto di indicare tagli possibili, così da avere risorse a sufficienza per tagliare le tasse in maniera lineare ed efficiente; per questo Giavazzi – pur accantonando per esempio i fondi pubblici alle già pubbliche Rai, Poste, Ferrovie dello stato, Enav – aveva ipotizzato la soppressione iniziale di 5 miliardi dei fondi del 2011 (le voci in grassetto nelle tabelle successive).
Dopo un anno di presunto “rigore fiscale”, cosa è successo? I sussidi pubblici sono rimasti invariati o sono aumentati, come dimostrano le due tabelle qui di seguito su “trasferimenti correnti” e “contributi agli investimenti” che vengono erogati dal solo Stato centrale (quindi escludendo la cifra di simile entità di tutti gli enti locali).
Dal 2011, cioè l’anno cui faceva riferimento il censimento di Giavazzi, al 2012, sono aumentati i trasferimenti correnti, da 5 a 5,9 miliardi, mentre sono diminuiti gli investimenti, da 10,6 a 9,7 miliardi. Il perché è presto detto: tagliare spesa corrente solleva opposizioni certe, mentre ridurre investimenti è politicamente meno doloroso, perciò si è percorsa la seconda strada. Anche i finanziamenti “eliminabili” (voci in grassetto) sono aumentati, perlomeno se si contano in questa categoria gli 851 milioni aggiuntivi erogati nel 2012 alla voce “restituzione compensazione oneri gravanti sugli autotrasportatori”, i 200 milioni al “sistema creditizio”, i 103 milioni per il “fondo per la diffusione media in ambito locale”, il “fondo opere strategiche della Cassa depositi e prestiti” (da 374 a 747 milioni), il “fondo opere strategiche per altre imprese” (da 211 a 305 milioni).
E se la spesa pubblica rimante intoccabile, le tasse non possono scendere (ma solo aumentare).
Eppure Giavazzi aveva spiegato che “un taglio della spesa, se utilizzato per ridurre la pressione fiscale, può far crescere il reddito in modo più che proporzionale”. E aveva stimato che “se i contributi eliminabili ammontassero a circa 10 miliardi annui, la loro abrogazione produrrebbe, nell’arco di due anni circa, secondo le nostre stime, un aumento del livello del Pil del 1,5 per cento. Analoghi esercizi di simulazione del modello econometrico di Prometeia indicano che un provvedimento di questo tipo nell’arco di tre anni farebbe crescere il pil fra lo 0,7 e l’1,1 per cento, ridurrebbe i prezzi al consumo di circa un punto percentuale e migliorerebbe l’avanzo di bilancio di circa 3 miliardi”. Lo scambio tra “meno sussidi” e “meno tasse” è fallito, però, perché gestire questi soldi pubblici è una forma di potere a cui certe burocrazie ministeriali difficilmente vorranno rinunciare.