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Giusto un mese fa, il premio Nobel per l’economia Paul Krugman pubblicava sul suo blog, ospitato dal sito New York Times, un post dal titolo eloquente: “Dove sono gli economisti pro-austerità?”
Sta funzionando?
Va bene, i politici, alcuni in particolare, rimangono fedeli a questa teoria. Ma gli economisti?
La risposta che Krugman dà alla sua domanda iniziale è:“difficile trovarne uno. Alberto Alesina, una volta guru della cosiddetta “austerità espansiva”, difende ancora le sue ricerche precedenti; ma non gioca più un ruolo di primo piano nel dibattito politico corrente. Reinhart e Rogoff, la cui famosa “soglia del 90 per cento” [nel rapporto debito pubblico/PIL, ndr] era considerata vangelo, provano a difendere la loro reputazione professionale e andare avanti per la loro strada, ma non si uniscono al coro di quanti continuano a chiedere l’austerità. Chi rimane?”
Dando per scontato il fatto che la classe politica europea non sia onnisciente, ci aspettiamo che seguano le indicazioni dei maggiori esperti a livello mondiale per risolvere la crisi della zona-euro e credendo alla loro buona fede quando accolsero la teoria dell’austerità espansiva, troviamo inconcepibile come insistano su questa linea quando sembra che tutti i maggiori economisti indipendenti, quindi non appartenenti a Think-tank o a determinate frange politiche, indichino l’austerità non come una cura inefficace ma addirittura dannosa.
Un esempio pratico di come il lavoro coordinato tra classe politica e mondo accademico abbia portato a buoni risultati lo troviamo in Gran Bretagna. Nel 2003 al momento di decidere o meno se adottare la moneta unica l’allora Cancelliere (Ministro dell’Economia) Gordon Brown annunciò che ci sarebbero stati cinque test da superare per poter entrare nell’euro e che il Ministero del Tesoro avrebbe trascorso un paio di anni facendo ricerche approfondite su questi cinque test. Alla fine vennero pubblicate 18 ricerche e, sebbene esse contenessero una parte di materiale originale, si trattò essenzialmente di ottime sintesi della letteratura accademica sul tema, e molti studiosi vennero consultati per accertarsi della bontà di esse. I risultati delle ricerche portarono al risultato che solo un test su cinque passò e la Gran Bretagna decise di non entrare nella moneta unica, godendo tutt’ora dei vantaggi di questa scelta. Il prof. Simon Wern-Lewis dell’Università di Oxford, che partecipò a quegli studi e quindi alla decisione finale, ricorda in un articolo la vicenda sottolineando come: “Comunque il punto fondamentale è questo. La decisione è stata presa sulla base delle migliori analisi che i macroeconomisti del tempo sono stati capaci di fornire. Ed è una vergogna che questo modo di prendere le decisioni economiche oggi appaia come l’eccezione anziché la regola”.
Sempre un mese fa sul Financial Times è stato pubblicato un manifesto dal titolo: “Il monito degli economisti”. Questo manifesto, firmato da più di 300 economisti, provenienti da ogni parte del mondo, mette in guardia la classe politica del continente dal perdurare delle politiche economiche attuali, sostenendo che un immediato cambio di direzione sia l’unica soluzione possibile per la sopravvivenza dell’Euro e dell’UE stessa. Qui sotto il testo integrale del manifesto:
La crisi economica in Europa continua a distruggere posti di lavoro. Alla fine del 2013 i disoccupati saranno 19 milioni nella sola zona euro, oltre 7 milioni in più rispetto al 2008: un incremento che non ha precedenti dal secondo dopoguerra e che proseguirà anche nel 2014. La crisi occupazionale affligge soprattutto i paesi periferici dell’Unione monetaria europea, dove si verifica anche un aumento eccezionale delle sofferenze bancarie e dei fallimenti aziendali; la Germania e gli altri paesi centrali dell’eurozona hanno invece visto crescere i livelli di occupazione. Il carattere asimmetrico della crisi è una delle cause dell’attuale stallo politico europeo e dell’imbarazzante susseguirsi di vertici dai quali scaturiscono provvedimenti palesemente inadeguati a contrastare i processi di divergenza in corso. Una ignavia politica che può sembrare giustificata nelle fasi meno aspre del ciclo e di calma apparente sui mercati finanziari, ma che a lungo andare avrà le più gravi conseguenze.
Come una parte della comunità accademica aveva previsto, la crisi sta rivelando una serie di contraddizioni nell’assetto istituzionale e politico dell’Unione monetaria europea. Le autorità europee hanno compiuto scelte che, contrariamente agli annunci, hanno contribuito all’inasprimento della recessione e all’ampliamento dei divari tra i paesi membri dell’Unione. Nel giugno 2010, ai primi segni di crisi dell’eurozona, una lettera sottoscritta da trecento economisti lanciò un allarme sui pericoli insiti nelle politiche di “austerità”: tali politiche avrebbero ulteriormente depresso l’occupazione e i redditi, rendendo ancora più difficili i rimborsi dei debiti, pubblici e privati. Quell’allarme rimase tuttavia inascoltato. Le autorità europee preferirono aderire alla fantasiosa dottrina dell’“austerità espansiva”, secondo cui le restrizioni dei bilanci pubblici avrebbero ripristinato la fiducia dei mercati sulla solvibilità dei paesi dell’Unione, favorendo così la diminuzione dei tassi d’interesse e la ripresa economica. Come ormai rileva anche il Fondo Monetario Internazionale, oggi sappiamo che in realtà le politiche di austerity hanno accentuato la crisi, provocando un tracollo dei redditi superiore alle attese prevalenti. Gli stessi fautori della “austerità espansiva” adesso riconoscono i loro sbagli, ma il disastro è in larga misura già compiuto.
C’è tuttavia un nuovo errore che le autorità europee stanno commettendo. Esse appaiono persuase dall’idea che i paesi periferici dell’Unione potrebbero risolvere i loro problemi attraverso le cosiddette “riforme strutturali”. Tali riforme dovrebbero ridurre i costi e i prezzi, aumentare la competitività e favorire quindi una ripresa trainata dalle esportazioni e una riduzione dei debiti verso l’estero. Questa tesi coglie alcuni problemi reali, ma è illusorio pensare che la soluzione prospettata possa salvaguardare l’unità europea. Le politiche deflattive praticate in Germania e altrove per accrescere l’avanzo commerciale hanno contribuito per anni, assieme ad altri fattori, all’accumulo di enormi squilibri nei rapporti di debito e credito tra i paesi della zona euro. Il riassorbimento di tali squilibri richiederebbe un’azione coordinata da parte di tutti i membri dell’Unione. Pensare che i soli paesi periferici debbano farsi carico del problema significa pretendere da questi una caduta dei salari e dei prezzi di tale portata da determinare un crollo ancora più accentuato dei redditi e una violenta deflazione da debiti, con il rischio concreto di nuove crisi bancarie e di una desertificazione produttiva di intere regioni europee.
Nel 1919 John Maynard Keynes contestò il Trattato di Versailles con parole lungimiranti: «Se diamo per scontata la convinzione che la Germania debba esser tenuta in miseria, i suoi figli rimanere nella fame e nell’indigenza […], se miriamo deliberatamente alla umiliazione dell’Europa centrale, oso farmi profeta, la vendetta non tarderà». Sia pure a parti invertite, con i paesi periferici al tracollo e la Germania in posizione di relativo vantaggio, la crisi attuale presenta più di una analogia con quella tremenda fase storica, che creò i presupposti per l’ascesa del nazismo e la seconda guerra mondiale. Ma la memoria di quegli anni sembra persa: le autorità tedesche e gli altri governi europei stanno ripetendo errori speculari a quelli commessi allora. Questa miopia, in ultima istanza, è la causa principale delle ondate di irrazionalismo che stanno investendo l’Europa, dalle ingenue apologie del cambio flessibile quale panacea di ogni male fino ai più inquietanti sussulti di propagandismo ultranazionalista e xenofobo.
Occorre esser consapevoli che proseguendo con le politiche di “austerità” e affidando il riequilibrio alle sole “riforme strutturali”, il destino dell’euro sarà segnato: l’esperienza della moneta unica si esaurirà, con ripercussioni sulla tenuta del mercato unico europeo. In assenza di condizioni per una riforma del sistema finanziario e della politica monetaria e fiscale che dia vita a un piano di rilancio degli investimenti pubblici e privati, contrasti le sperequazioni tra i redditi e tra i territori e risollevi l’occupazione nelle periferie dell’Unione, ai decisori politici non resterà altro che una scelta cruciale tra modalità alternative di uscita dall’euro.