Manuale per ricevere applausi, consensi e tanti elogi in tv. Prendere un argomento inviso a tutti, la politica e i suoi privilegi. Fare un discorso retorico, condito da banalità su banalità, usando parole chiave come casta e denaro pubblico, sventolando scontrini e documenti, criticando tutti inopinatamente senza un minimo di riflessione costruttiva. Quello che si è visto marcatamente prima con Enzo Iacchetti coi suoi video su Youtube, poi a Le Iene (Italia Uno) mercoledì sera e successivamente a Servizio Pubblico, la nuova creatura cross-mediale di Michele Santoro, sono lo specchio banale di un’indignazione giusta ma profondamente superficiale.
Partiamo dalle iene e dai monologhi anti-casta di Enrico Brignano. Dieci minuti circa dove con nomi e cognomi, riferimenti precisi e populismo dilagante, dove il nuovo conduttore del programma si scaglia contro gli sperperi della politica che danneggiano la gente comune. Concetto condivisibile e pienamente azzeccato, ci mancherebbe, ma ci sono due cose che stonano: il senso di mancata autorevolezza di chi parla e l’ovvietà di quello che si dice. Enrico Brignano è un comico, ma ci sono comici con dichiarata coscienza civile e comici che trovano in etichetta la parola più vicina ad etica. Lui rientra nella seconda schiera. Il curriculum di chi si piazza a fare l’indignato, seppur facendo la parte del personaggio vicino alla gente e ne fa parte, deve contare. Non si può dall’oggi al domani cambiare registro ed ergersi come voce dell’indignazione di punto in bianco, dopo aver fatto da protagonista in film di una demenzialità unica come Un’estate ai Caraibi, Sharm el Sheikh e compagnia bella. I tanti proclami, accompagnati da una violenza linguistica fuori luogo ma necessaria per nascondere le pochezze della riflessione fatta, non hanno nessun peso. Nel suo discorso, come in quello di Iacchetti su un video postato su Youtube, non c’è nessuna considerazione, nessuna critica costruttiva, nessuno spunto. Solo parole, parole e ancora parole che, alla fin dei conti, sono il giusto contraltare ai discorsi della politica. Vuoti e inconcludenti allo stesso modo.
Altro discorso va fatto per Michele Santoro e il suo Servizio pubblico, che ha debuttato giovedì sera dopo tanto clamore su un numero di tv locali, su Sky Tg24, sui siti internet di diverse testate importanti come Corriere della Sera e Repubblica. Qui si parla di Rivoluzione, di Indignazione e di tante altre belle cose, ma in perfetto stile Santoro con una faziosità incredibile. La cosa più brutta, a mio avviso, è stato cominciare con un “Caro Biagi, caro Montanelli” che è quanto di più paraculo, passatemi il termine, si potesse fare, citando due mostri sacri del giornalismo per dare autorità ad un programma che di equilibrato non ha nulla. Servizio pubblico è Anno zero senza confronto, senza dialettica (e già ce n’era poca) dove si può facilmente dire tutto e il contrario di tutto senza diritto di replica, facendo di tutta l’erba un fascio. Le scelte e le battute facili, che virano verso il populismo soprattutto col vignettista Vauro e le stoccate di Santoro e Travaglio, sono tante, troppe. E meno male che in studio c’erano Paolo Mieli, presidente RCS ed ex direttore di Stampa e Corriere della sera, e la coppia Gian Antonio Stella-Sergio Rizzo, apprezzati giornalisti del Corriere della sera, a dare logica e critica costruttiva al programma coi loro interventi.
Tutti parlano di indignazione e rivoluzione, di meritocrazia e trasparenza, di rivoluzione culturale. Giusto parlarne, sacrosanto discuterne, necessario farlo entrare nel dibattito pubblico. Ma c’è bisogno di tutto questo populismo? Va bene (fino ad un certo punto…) guadagnare il consenso facile da parte del pubblico, ma per fare le rivoluzioni culturali ci vuole tutt’altro.