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Maboroshi

Creato il 14 giugno 2011 da Makoto @makotoster
*** Flashback *** Maboroshi
Maboroshi no hikari (幻の光, Maborosi). Regia: Koreeda Hirokazu; soggetto: dal romanzo di Miyamoto Teru; sceneggiatura: Ogita Yoshihisa; fotografia: Nakabori Masao; interpreti: Asano Tadanobu, Esumi Makiko, Naitō Takashi, Emoto Akira, Oosugi Ren; durata: 110’; uscita: 21 marzo 1997. Link: Mubi (visione in streaming a pagamento) - Rogert Ebert (Chicago Sun-Times) PIA: Commenti: 3,5/5   All’uscita delle sale: 66/100 Punteggio ★★★★   Il film inizia con un sogno. Un sogno che riguarda la nonna, defunta, della protagonista. Una piccola donna anziana risoluta che improvvisamente aveva deciso di lasciare la famiglia e tornare al suo villaggio di origine. La piccola Yumiko non era riuscita a trattenerla. Nel sogno la bambina corre sul ponte per raggiungere la nonna, che però non ritorna. C’è dunque la morte in questo inizio (sogno di morte o morte “vestita” da sogno…), ma c’è anche tutta la dolorosa malinconia che porta con sè la memoria di una persona cara persa per sempre, c’è il germe dell’assenza. E’, in sostanza, il manifesto in miniatura del cinema di Koreeda Hirokazu. Maboroshi no hikari è il primo lungometraggio di Koreeda. Tratto da un romanzo di Miyamoto Teru, è un film lento e poetico sul tema della morte e della memoria. E’ la storia di Yumiko, giovane sposa di Ikuo e madre di Yuichi, di un’esistenza che sembra scorrere pacifica in un tranquillo quartiere di Osaka. Fino al giorno in cui il marito di Yumiko non torna dal lavoro e la donna viene a sapere poco dopo che è stato travolto ed ucciso da un treno mentre camminava sui binari. Non è chiaro se si tratti di suicidio o di un incidente. Cinque anni più tardi Yumiko si risposa con un uomo vedovo con una figlia (Tamio), e si trasferisce con la nuova famiglia in un villaggio sulla costa. I fantasmi del passato, i nodi mai sciolti dell’angoscia della donna determinati dal senso di impotenza di fronte all’inspiegabilità della morte (prima della nonna, poi del marito), ritornano infine alla luce, trascinandola verso un finale catartico. Tutto il film si confronta con l’idea della morte e con la necessità di elaborarne il concetto per poter riprendere a vivere, con la forza data da una nuova consapevolezza del passato. Ma non c’è solo il senso di perdita dato dalla morte, in Maboroshi. C’è la ricchezza dell’universo della memoria, fatta di immagini di luoghi, del ricordo delle persone, persino dei suoni; c’è l’ambiente naturale, lo spazio attorno ai personaggi che assume un’importanza fondamentale, diventando il palcoscenico per descrivere i sentimenti che si dibattono nell’animo della protagonista. E’ un’opera splendidamente articolata, dalla quale emerge la sensibilità profonda del suo autore, che verrà confermata dalle opere successive. Non banale il modo in cui il regista tratteggia l’universo femminile: lo stesso Koreeda definì il film come un “documento sulle ombre e le luci che abitano una donna”. Yumiko è simile a quelle figlie, nipoti, mogli e madri, a quelle eroine del cinema giapponese, apparentemente fragili, condannate ad un destino di sofferenza. La donna si muove nei campi lunghi del regista con un’eleganza drammatica. E’ come se in lei fossero evidenti le tracce che la morte delle persone care hanno lasciato, quella morte che appartiene all’inspiegabile e che quindi non viene mai mostrata. Ma cos’è maboroshi? In una delle sequenze più intense e toccanti del film una processione funebre si dirige verso il mare. Nelle prime scene una neve improvvisa e surreale comincia a cadere, per poi scomparire nelle inquadrature successive. La processione arriva sul lungomare seguita da Yumiko, a cui si unisce il marito Tamio, che la raggiunge sugli scogli, di fianco alla pira funeraria ancora in fiamme. I due sono silouhettes nere davanti al tramonto. L’ambiente, come si diceva, rappresenta l’interiorità dei personaggi, le sagome nere e aggressive degli scogli che si stagliano contro la luminosità policroma del cielo, creano un rapporto luce/ombra che inquadra le figure. Qui la donna rivela che la propria ossessione è quella di non essere riuscita a dare un senso alla morte/suicidio di Ikuo. Tamio allora fornirà la propria interpretazione dell’accaduto, ricordando che il proprio padre gli aveva confessato di essere stato attratto da una misteriosa luce dal mare, maboroshi appunto, il miraggio, il “raggio di illusione”. Forse, ipotizza l’uomo, può accadere a chiunque. Le parole di Tamio assumono una forza quasi taumaturgica. A questo punto il regista sembra lanciare un segno di speranza: i due arretrano e la pira funeraria esce dall’inquadratura, lasciando spazio alla coppia e, per quanto riguarda Yumiko, alla possibilità di elaborare finalmente il proprio lutto. La morte cede il passo alla vita. Per quanto riguarda lo stile, il regista si propone fin da questa prima opera con un approccio – che ne testimonia l’amore per l’opera di grandi autori come Ozu, Hou Hsiao-Hsien, ma anche Oguri Kōei (in particolare il film Doro no kawa, del 1981, tratto anch’esso da un romanzo di Miyamoto Teru) - caratterizzato dal rifiuto, salvo poche eccezioni, dei piani ravvicinati o dei primi piani, dalla quasi totale assenza di movimenti di macchina, dall’uso della luce naturale, dalla creazione di “quadri” d’ambiente nei quali rinchiudere i personaggi. Proprio a questo riguardo, peraltro, è da notare che i piani fissi, l’utilizzo semantico del paesaggio, la pratica assenza di controcampo, rimandano anche alla messa in scena tipica del documentario, e quindi al passato personale di Koreeda nel mondo del documentario. Concludo con un aspetto particolare: l’insistente presenza dei treni. Tutto il film è attraversato dall’oscuro presagio rappresentato da treni che passano. Dai finestrini baluginano le luci che ammaliano Ikuo e spettatore insieme. Attraverso queste luci Koreeda è come se parlasse direttamente allo spettatore di cinema, sia perché queste stesse luci ne sono la rappresentazione visiva, sembrano infatti lo scorrere della pellicola; sia perché l’alternanza di luci e ombre è come se sottoponesse lo spettatore a quello stesso fascino che ha spinto Ikuo verso il suicidio, al potere seduttivo della luce. [Claudia Bertolè]


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