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Non è una biografia di Togliatti. L’ultimo libro di un inesauribile Emanuele Macaluso vuole rianalizzare il ruolo delle sinistre e dei cattolici democratici, adulti e no, nella costruzione e nel successivo accadere della democrazia repubblicana, nelle primavere della speranza e negli inverni del nostro scontento. “Comunisti e riformisti, Togliatti e la via italiana al socialismo”, ora per Feltrinelli, lo si legge come il tentativo di mettere da parte, con significativa documentazione, una lettura, in verità sempre meno consueta, che considerava un ossimoro parlare di riformismo comunista.
Il leader comunista, protagonista dalla metà degli anni ’40, accumula il tempo, le parole, le immagini, gli eventi trascorsi e li rivive al presente. Il comunismo italiano come antisistema? Per una necessità addirittura ontologica? Ma perché non fare invece nostro il detto cinese secondo cui “chi prende l’acqua da un pozzo non dovrebbe mai dimenticare chi l’ha scavato”? Ecco, facendo i conti con tutto il passato, tutto. Senza giustificazionismi di maniera, senza nemmeno quelli che secondo Hegel renderebbero lecito all’uomo “della storia universale” l’uso della violenza. Ma di tutto questo come avremmo potuto discuterne senza l’iniziativa politica che era derivata dalla resistenza, senza l’iniziativa forte della sinistra che si faceva carico anche di ammortizzare quel ribellismo inevitabile dopo sanguinose e terribili guerre civili, senza il gradualismo della scelta di Salerno e dalle azioni conseguenti compiute soprattutto da Togliatti?
E se la rottura del 47 fu inevitabile per motivi di geopolitica mondiale, dalla rottura ne derivarono, è la tesi di Scoppola, cattive situazioni di impossibile alternativa al potere che deteriorarono le istituzioni e determinarono conseguente vistoso degrado etico. Il fattore k, come lo si definirà poi, derivò dalle preoccupazioni atlantiche più che dalla realtà, soprattutto dopo l’abiura di Berlinguer e la sostanziale accettazione della Nato. Semmai è questa storia che, ad esempio, dà vistosamente torto in Sicilia ad Alessi, primo segretario d.c. e primo presidente, che nel 48 al Corriere della sera spiegava che, come anche le gerarchie cattoliche, considerava la mafia molto meno pericolosa dei comunisti al punto da sollecitarne il consenso.
Fin qui il ragionamento sul riformismo comunista: l’invenzione della democrazia fu di significato essenziale. Sul dopo, sugli sviluppi, sulla qualità del nostro essere democratici il discorso resta tuttavia aperto. E non basta non dimenticare gli errori di Togliatti: da Gramsci, alla terza internazionale, allo stalinismo, al Comintern, alla Spagna, infine, molto dopo, alle perplessità sul rapporto del XX congresso e al 56 di Budapest, alla timida pur tardiva Yalta. E in positivo non basta certo aggiungere che accompagnò una straordinaria stagione civile, battendosi da sinistra, nonostante tutto, per questo stato, con il coraggio di chi prende “il toro con le corna, e cerca di controllarlo e di domarlo”, come si sarebbe detto.
Il tema che invece resta comunque aperto è quello del funzionamento interno delle istituzioni e dei modi di essere della democrazia. Non bastò, ricordava Noventa, aver fatto una religione dell’antifascismo, sarebbe stato necessario non considerare il fascismo come parentesi, ma, alla Gobetti, come biografia del paese e capire quanto fascismo ci fosse in ciascuno, come condizione dello spirito e prassi. E come l’essere e il funzionamento dei partiti non abitasse di fatto la Costituzione della Repubblica.
Forse questo aveva inciernierato le sinistre in un oblio e attenuazione di valori che erano diventati, anche con fondamentale merito loro, la sostanza di quella costituzione che declinava appunto la passione per una nuova socialità e per una compiuta cittadinanza. Questo forse riguardava meno il veterocattolicesimo curiale, tutto flebile pentimento e facili gratuite assoluzioni, ma sarebbe stato fondamentale per i cattolici, che poi avremmo chiamati adulti, che credevano in un cristianesimo “come principio di non appagamento, di contraddizione, di cambiamento, e nella politica come modo di vivere la carità”. Invece è come se tutto si fosse appannato tra i meandri della politica che vistosamente perdeva il connotato di filosofia, di scienza dei perché.
E con l’altra biografia del paese, quella del berlusconismo, che corrispondeva ad una antropologia costantemente espressiva di anti-socialità, anti-cittadinanza, anti-statualità, le sinistre, quando poterono, sperimentarono le logiche possibiliste e compromissorie di un leninismo soft, mentre i veterocattolici della gerarchia vissero, come doverose, svariate simonie del dare a Cesare e riavere da Cesare. Tutto qui? Dovremo allora certamente riparlare di qualità dei riformismi. Anche ripartendo dal libro di Macaluso. Tra l’altro la democrazia che viviamo e nei vistosi deficit, frutto di ignavia e di mala politica è abbondantemente contrastata anche da sanculottismi che, in odium Italiae, si affidano ad una violenza confusa, appunto speculare alla incapacità di decifrare, enunciare bisogni gravi ed urgenti che pur ci sono.
Le cose di adesso sembrano appunto cartine di tornasole che ci raccontano di questa democrazia andata a male. Ed era talmente comodo il regime dell’antipolitica, certo come sostanza di nostro permanente giusificazionismo, che adesso l’amputazione del berlusconismo sembra addirittura provocare la sindrome dell’arto mancante.
Fellini, ci dice Manara nelle sue storie a fumetti, non voleva mai che nei suoi film apparisse il consueto The end, la parola Fine. Scaramanzia o convinzione interiorizzata che da noi nessuna storia finisce? E ci siamo tutti , proprio tutti, nel girotondo finale di 8 e ½, bello e struggente nella sua estetizzante inutilità, diretto da un regista incapace di concludere e che così trova surrealmente modo per non concludere. O tutti, proprio tutti, come il Marcello della Dolce Vita che accanto all’orca spiaggiata, in ginocchio, cerca di capire parole che vengono gridate, lontane, tanto lontane che e come se non ci fossero e vanno a perdersi nella lividità di un’alba su un mare d’inverno.
Giuseppe Campione
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