Un'anticipazione di quello che domani sarà pubblicato su Io leggo eterea:
Esagerazione fumettistica, stile roboante e citazionismo esasperato: questi sono gli ingredienti vincenti dell’ultima opera di Robert Rodriguez, Machete, diretto insieme a Ethan Maniquis.
Il film costituisce lo sviluppo del finto trailer che compare nei primi minuti del film horror Grindhouse – Planet Terror, diretto dallo stesso Rodriguez nel 2007.Prodotto nel 2010, Machete è uscito nelle sale italiane solo il 6 maggio 2011, ma l’anno precedente era già stato proiettato sul grande schermo negli Stati Uniti e presentato fuori concorso alla 67esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.
Il regista messicano, dopo El Mariachi (1992), Desperado (1995) e C’era una volta in Messico (2003), prosegue, attraverso la consueta e inconfondibile impronta registica, con un nuovo western contemporaneo. Protagonista principale di Machete è l’attore messicano Danny Trejo, ex delinquente e attore a partire dal 1985, anno in cui ha esordito con l’action-movie A trenta secondi dalla fine di Andrei Konchalovsky.
Il soggetto del film è abbastanza complesso e intrigante. Trejo interpreta Machete Cortez, un ex agente federale al quale lo spietato narcotrafficante Torrez (Steven Seagal) ha ucciso moglie e figlia. Tre anni dopo, mentre la frontiera fra Stati Uniti e Messico diventa sempre più rovente a causa dell’immigrazione clandestina, Machete viene avvicinato dal losco Michael Booth (Jeff Fahey), che gli offre 150.000 dollari per uccidere il senatore razzista McLaughlin (Robert De Niro), il quale si serve della polizia di frontiera, al comando del tenente Stillman (Don Johnson), per uccidere i clandestini che entrano negli Stati Uniti. Machete accetta l’incarico, ma scopre troppo tardi di essere finito al centro di uno sporco intrigo: Booth è in realtà l’uomo di fiducia del senatore, e ha simulato (all’insaputa del suo stesso capo) un attentato per incrementarne la popolarità e contribuire dunque a farlo rieleggere, portando avanti la sua politica razzista contro l’immigrazione dei messicani. Machete viene dunque utilizzato come capro espiatorio del finto attentato: ricercato da tutti, viene aiutato solo da suo fratello, il prete-pistolero Padre Cortez (Cheech Marin), dalla rivoluzionaria messicana Luz (Michelle Rodriguez) e dall’agente di polizia Sartana Rivera (Jessica Alba). Dopo aver scoperto inoltre che il senatore è finanziato segretamente proprio da Torrez, l’uomo che ha massacrato la sua famiglia, Machete scatena una guerra senza esclusione di colpi contro l’organizzazione.
La trama avvincente è dunque sostenuta da uno stuolo di grandi attori, ciascuno dei quali offre una caratterizzazione e una recitazione volutamente sopra le righe. Anche la violenza è esasperata, fra torture, massacri e teste mozzate, ma è così paradossale e fumettistica che sembra quasi di assistere a un videogame, come anche nelle scene d’azione, roboanti ed esagerate fino all’inverosimile. Ma è proprio tutta questa esagerazione a determinare il successo del film, che conquista lo spettatore dal primo all’ultimo minuto. Nei primi 6 minuti del film, prima dei titoli di testa, Rodriguez racconta l’antefatto tra Machete e Torrez ricorrendo alla tecnica dei “graffi sulla pellicola”, utilizzati già nel suo precedente film Grindhouse – Planet Terror , per ottenere un effetto particolare in stile anni Settanta.
Siamo dunque in pieno stile Rodriguez, che ancora una volta fa tesoro degli insegnamenti del suo “maestro” Quentin Tarantino (il quale, non a caso, è uno dei produttori, assieme allo stesso Rodriguez e a Elizabeth Avellan), anche per quanto riguarda il citazionismo, in particolare dal western italiano. Machete è infatti ricco di situazioni e personaggi chiaramente ispirati a questo genere.
Già a cominciare dal protagonista, un uomo d’azione che alle pistole preferisce le armi da taglio di ogni genere: anche nell’aspetto fisico, egli sembra essere ispirato ai messicani presenti in molti western nostrani. Ci sono anche casi in cui il personaggio si chiama proprio Machete, in virtù della sua arma preferita: ricordo, per esempio, quello interpretato da George Wang in Per il gusto di uccidere (1966) di Tonino Valerii e quello interpretato da Gianni Pallavicino in La belva (1970) di Mario Costa. La bellissima immagine di Danny Trejo che nasconde sotto la giacca un impressionante campionario di coltelli (immagine talmente efficace da essere immortalata anche nelle locandine) non può, inoltre, non richiamare alla memoria il crudele Scalper Jack, interpretato da Klaus Kinski, nel violento e curioso western Il mio nome è Shangai Joe (1973) di Mario Caiano.
Ma le citazioni non si limitano al protagonista principale. Il senatore razzista interpretato dal grande Robert De Niro, che si diverte a fare il tirassegno sui messicani che attraversano la frontiera, sembra essere l’erede diretto del sadico maggiore sudista Jackson (Eduardo Fajardo), che con il suo fucile fa strage di messicani nel western Django (1966) di Sergio Corbucci, pellicola fondamentale per tutto il genere. Il nome dell’agente di polizia che aiuta Machete, Sartana, è quello di uno dei più celebri pistoleri del western nostrano, anche se qui è utilizzato come nome femminile. Anche la figura del prete-pistolero non è nuova, e la ritroviamo in varie pellicole: dal classico Il figlio di Django (1967) di Osvaldo Civirani al terribile Il giustiziere di Dio (1972) di Franco Lattanzi, noto per essere uno dei western più brutti di sempre.
La grandezza della regia di Rodriguez consiste anche nel prendere tutte queste citazioni e mescolarle con situazioni nuove e personaggi volutamente esagerati o addirittura inverosimili: oltre allo straordinario personaggio di Machete, troviamo così una donna che combatte vestita da suora, la rivoluzionaria Luz con tanto di benda sull’occhio, il narcotrafficante Torrez con una sciabola da samurai, e una serie di armi incredibili, pistole enormi e mitra che producono esplosioni degne di una bomba.
Un elemento importante è anche il montaggio frenetico, con stacchi veloci di inquadrature, anche riguardo allo stesso personaggio.
Come già accennato in precedenza, tutto questo contribuisce a ottenere uno stile cinematografico quasi da videogioco, in particolare nella battaglia finale.
Bisogna evidenziare, infine, che la pellicola non è priva di un certo impegno civile, mostrando i lati più crudeli del razzismo e quelli più sporchi della politica, e contiene anche un parziale approfondimento psicologico, per nulla scontato in pellicole di questo genere.
davide.comotti@gmail.com