Mad Max: Ci Sarà Vita Dopo il Diluvio Universale?

Creato il 20 marzo 2013 da Dietrolequinte @DlqMagazine

Mario Turco 20 marzo 2013

Raramente alla fantascienza interessano l’hic e il nunc; essa è prettamente orientata verso il post. Un “dopo” che può essere naturalmente sia temporale che spaziale (dove andremo a vivere dopo l’inevitabile depauperamento del pianeta Terra?). Ciò che nel nostro futuro sarà certa è la catastrofe. Un giorno l’uomo pagherà tutti i suoi crimini (contro la propria specie e contro natura), e allora sia che forme di civiltà extraterrestri ci invadano sia che ardiamo in autodafé nucleari, andremo incontro alla palingenesi. Che non sarà però necessariamente catartica. Al di là di sporadici episodi intrisi di illimitata fiducia nella ragione, il genere fantascientifico è infatti permeato di un allusivo negativismo sulla capacità di rigenerazione morale dell’uomo. D’altronde, nemmeno il diluvio universale ha avuto effetti duraturi. Potrebbe addirittura accadere che l’evento distruttivo di cui saremo vittime colpevoli cancelli definitivamente l’ambigua ed evanescente linea di demarcazione tra il lecito e l’illecito e consegni ai posteri una forma di aggregazione tra gli individui non più sociale ma violentemente anarchica. È questo quello che accade in una delle saghe più famose del genere, la trilogia di Mad Max. Creatore assoluto di questo mondo distopico è l’australiano George Miller, soggettista, sceneggiatore e regista di tutti e tre gli episodi e momentaneamente impegnato nelle riprese di un quarto simil reboot-sequel previsto per il 2014. Nei panni del protagonista Max Rockatansky troviamo invece il connazionale Mel Gibson, al suo primo ruolo internazionalmente importante. Il primo film, datato 1979 e in Italia ribattezzato Interceptor (nome dell’auto guidata dal protagonista), ebbe un successo clamoroso nonostante l’irrisorietà del budget che ne condizionò pesantemente la poetica. Esso difatti, pur delineando a grandi linee la vicenda e quasi scevro di effetti speciali tipici del genere, sfrutta i grandi spazi delle campagne australiane per tracciare l’immagine di una non meglio precisata società che tra qualche anno sarà ridotta a bottino di guerra tra bande di teppisti drogati e dediti alla violenza. Il fascino del primo episodio sta però proprio in questa sua natura scarna ed abbozzata che si riflette sulla dicotomia irriducibile tra i buoni, i poliziotti della Main Force Patrol contro i cattivi, i criminali motorizzati.

È proprio da questa filosofia dello scontro puro, della lotta per la mera sopravvivenza in cui sono ormai sparite le istituzioni che presiedevano, o quantomeno davano una maschera giusnaturalistica (seppur contraddittoria ma comunque avente una funzione regolatrice), che consegue la definitiva legittimazione della violenza. In una situazione di emergenza permanente tutto è permesso: così i poliziotti brutalizzano gli esponenti della “feccia” senza nessun dilemma etico, patrocinati dal distintivo e dall’appartenenza a un corpo armato che è l’ultimo auto-nominato residuo di civiltà. Il protagonista Max riconosce la deriva e temendo la propria ebbrezza di sangue fugge con la famiglia cercando in un viaggio senza meta una disperata pace. Debitore in egual modo alle dinamiche dei film d’azione e alla visione nichilista dell’autore, l’assassinio dei propri congiunti farà infine di Max un “mad”, proprio come un qualunque delinquente. Un certo gusto per corpi martoriati e mutilati trova il proprio acme nel crudo finale in cui il protagonista si lascia andare volontariamente a una sadica vendetta riparatrice. Mad Max si caratterizza per uno stile di regia inaspettatamente ricercato e di forte matrice visionaria. George Miller è un ottimo direttore di scene d’azione, che si innalzano sopra la media per un gusto mai banale dell’inquadratura e per un montaggio cinetico ma non frammentario. I numerosi camera-car, sia interni che esterni, risaltano la bellezza e la novità esotica degli scenari, contribuendo a dare una sensazione di velocità raramente vista al cinema con questa eleganza. Unica pecca è la mancanza di continuità, dovuta alla sopraccitata povertà produttiva, che si nota negli sfondi il cui cielo cambia da nuvoloso a sereno nel giro di un taglio di inquadratura. Per quanto riguarda i personaggi la crapula violenza dei teppisti freak tinge a tinte così forti il film da far quasi dimenticare il resto.

Miller fu così intelligente da capire che erano stati proprio loro il motivo dell’enorme successo di Mad Max ed appena due anni di distanza sfornò il seguito Mad Max 2: The Road Warrior (la traduzione italiana continuò a concentrarsi sull’aspetto motoristico della storia titolandolo Interceptor – Il guerriero della strada) che radicalizzava contesto e personaggi. Con una certa dose di sfrontatezza e coraggio produttivo, la pellicola serba pochissime tracce dell’antecedente e il prologo dà le nuove coordinate (volutamente esili anche questa volta) della vicenda. L’umanità è stata devastata da una guerra atomica tra le potenze che ha lasciato sporadici ricordi tra i superstiti. La vita si riduce a una dimensione ancora più primitiva: negli sconfinati deserti di sabbia essa ruota attorno alla conquista della benzina, il bene più prezioso di questo tempo. Di fronte a una calura che traspare da ogni inquadratura e all’immenso nulla nutritivo del deserto, sarebbe stato consequenziale aspettarsi un’estrema lotta per il cibo. E invece le riserve alimentari sembrano non essere importanti per uomini che senza più raffinatezze culinarie non disdegnano di mangiare scatolette di brodaglia per cani. È proprio singolare la scelta di innalzare il carburante a bene primario, come se in un mondo post-atomico dove più nulla ha importanza, soltanto il poter scorazzare su veicoli ibridi alla continua ricerca di vittime da sodomizzare abbia un qualche pur minimo senso. La scena dello stupro e dell’uccisione della ragazza risulta disturbante proprio per il sadismo dei carnefici che coscientemente sogliono eliminare oltre che umiliare quello che è solo l’oggetto delle proprie nefandezze. Non a torto, anche se con qualche rozzezza di pensiero, è stato richiamato dalla critica un ritorno al medioevo barbarico. L’istinto bruto da conquistatore, ancor più che ferino poiché l’animale non esercita violenza per il puro piacere di commetterla, prevarrebbe quindi nell’uomo se un qualche evento gli desse la possibilità di ricominciare da capo. Il messaggio lanciato da Miller è chiaro: la civiltà è solo un abito indossato dall’umanità, non connaturata ad essa. Questa ideologia profondamente distruttiva, serve comunque al regista per imbastire un film più spettacolare del primo. Le vene di follia che percorrevano i criminali del precedente episodio, adesso diventano grandi come arterie. Fregandosene a bella posta del rischio kitsch e prendendo spunto dalle popolazioni germaniche del medioevo, gli Humungus vanno in giro bardati di brandelli di pelle, borchie e spuntoni metallici. Anche la gerarchia è di stampo tribale: a capo dell’orda stanno rispettivamente l’individuo più massiccio e subito sotto quello più feroce.

Con dei cattivi così estremi anche l’ex-poliziotto Max ha innalzato un muro di cinismo tra sé e gli altri. Nel film il protagonista parla quasi esclusivamente per reclamare la propria auto o qualche tanica di benzina. Con un personaggio così granitico Mel Gibson, giovane e fortunatamente senza ancora i manierismi della star, offre ancora una volta un’interpretazione marmorea ai limiti dell’inespressività. È lo stesso quesito che si pone per Clint Eastwood: è il ruolo che richiede una tale asciuttezza facciale o è la mancanza di talento recitativo? Per quanto riguarda George Miller, egli offre una prova registica più sorprendente perfino del primo episodio. Dimostrando di saper gestire anche budget più consistenti affina ancora di più il lato narrativo della vicenda, donandole una fluidità non lontana da Lucas e Spielberg. Il tema dell’assedio e dei rapporti che si instaurano tra quelli che rischiano ad ogni passo di trasformarsi in agnelli sacrificali, richiama con inalterata pregnanza tanto cinema carpenteriano. La forsennata mezz’ora finale del film, tutta incentrata sulla corsa della cisterna condotta da Max sotto gli assalti degli Humungus, è un compendio compatto e arricchito delle migliori trovate del genere d’azione. Agli stuntman è concessa una completa libertà creativa che essi sfruttano per capitomboli e distruzioni ai limiti del suicidio. La saga di Mad Max sarebbe potuta tranquillamente finire qui, con l’eroe che ritrovava la sua primigenia natura sacrificando la sua libertà per i componenti della Tribù del Nord. Insomma, il percorso tutto occidentale della caduta e del riscatto (la sequenza cronologica eroe-antierore-eroe) del protagonista si era già compiuto all’interno dei due lungometraggi.

Ma Miller nel 1985 decide di puntare ancora più in alto e con il terzo Mad Max oltre la sfera del tuono (finalmente corretto il titolo italiano, non fosse altro che l’Interceptor era andata distrutta nel secondo episodio!) ammanta la storia con un velo di parabola new age. Anche questo episodio segna una riscrittura della saga: nessuna menzione dei fatti precedentemente occorsi, mentre perfino l’aviatore interpretato da Bruce Spence, pur mantenendo alcune caratteristiche basiche del proprio personaggio del secondo film, è comunque indipendente da esso. Max intanto prosegue la sua vita errabonda fino a quando arriva a un avamposto di accampati che per una sineddoche generosa la sceneggiatura rinomina Bartertown. La figura della città corrotta e corruttrice, al cui interno si esercita con geometrica alacrità l’infamia dei propri abitanti, fa perdere alla trilogia in innovazione. Miller allora sceglie di perpetuare ed anzi accentuare ove possibile la bestialità e la sozzura dei comprimari ma lo fa fin troppo consapevolmente. In questo modo la selvaggia bizzarria degli Humungus qui si trasforma in bozzettismo macchiettistico. Si noti al riguardo la presenza di una volitiva Tina Turner che si diverte un mondo (e si vede) nei panni di una sovrana barbara disposta a tutto per mantenere il potere su quella cupa selva di dannati. Perfino l’interessante metafora del metano ricavato dallo sterco di maiale si limita all’estemporaneità senza venir approfondita. Pur nella sua convenzionalità questa prima parte non è comunque malvagia. Miller ormai plasma con piena sicurezza la propria creatura artistica. La pellicola sembra però aver fretta di arrivare al cuore della propria storia e dopo il duello nel Thunderdome (una specie di Colosseo dove l’altro erculeo gladiatore si scopre essere un down!) Max viene salvato dalla morte per inedia da una stramba tribù di ragazzini. L’intreccio abbandona i toni vorticosi ad esso congeniali per avvitarsi su una simbologia fin troppo semplificata. Si assiste con sbadiglio alla spiegazione della loro religione costruita attraverso i relitti di un disastro aereo che gli impone l’attesa di un Messia che dovrebbe condurli alla Città del domani domani. La parabola si conclude con un finale speculare al secondo episodio ma questa volta preda di un pugnace assalto sarà un treno. Miller però con gli anni ha smussato un po’ del suo pessimismo. Il residuo del suo precedente pensiero viene ancora una volta esemplificato dal personaggio di Max che si immola nuovamente per garantire un avvenire agli altri personaggi. A differenza della sorte della Tribù del Nord che veniva solo narrata dalla voce fuori campo, questa volta vediamo i bambini riuscire a stabilirsi in una Sidney ricoperta dalle sabbie e ivi proliferare. Insomma, dopo il Diluvio siamo pur sempre qui a fare film, o no?


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