di Angelo Rossi – Quando, nell’ormai lontano febbraio del 1976, un gruppo di tecnici Udias si recarono in Sud Africa per conoscere quell’affascinante Paese, era tempo di vendemmia. C’era l’apartheid, eccome, ma nessuno sapeva che a Robben Island, un isolotto in mezzo all’Atlantico, tale Nelson Mandela stesse spaccando pietre sotto il sole cocente scontando una condanna all’ergastolo per le sue attività con l’ANC. Nei primi giorni di visita al Nietvoorbij Viticultural and Oenological Institute di Stellenbosch, collegato all’Istituto di San Michele, la situazione socio-politica rimase sullo sfondo ed a me, poco più che ragazzo, interessava incontrare il prof. Boyazoglu che avevo conosciuto un paio d’anni prima al Congresso O.I.V. che si era tenuto nella nostra regione. Appena si cominciò ad andare per cantine e vigneti, però, quell’apartheid proruppe con tale violenza che scosse anche i più scafati dei nostri compagni di viaggio. All’apparenza era tutto bello, anzi bellissimo. Meglio della California, come ambiente. I nostri interlocutori erano solo bianchi e ci si capiva con un po’ d’inglese e di tedesco. Quella vitivinicoltura del resto, era impostata sul modello franco-tedesco, con macchine ed attrezzature italiane. Per gli uomini bianchi non c’era motivo che parlassimo con i neri e dei neri: un’occhiata dall’esterno, senza fermarsi, a Soweto dove di notte ne venivano confinati oltre un milione, doveva bastare. Dentro, intere famiglie di miserabili bantù guardate a vista dalla polizia nera a cavallo, di razza zulu, gli unici in grado di tenere un minimo d’ordine tollerando un abnorme consumo di alcol. L’alcol, appunto. Ricavato soprattutto da uve destinate proprio a vini alcolizzati, con solo il vino fiore riservato alla bottiglia. Per forza che i bianchi di Chenin, Sauvignon, Chardonnay e Cape Riesling erano buoni, come pure i Cabernet S., i Cinsaut ed i Pinotage fra i rossi. Vero è che una mattina presto la scena di vendemmia nella vigna recintata del boero, sembrava del tutto normale. Scoprimmo dopo che la selezione degli operai era già avvenuta all’alba, scegliendo solo le donne che si erano portate più uomini. Costoro avrebbero lavorato gratis perché il boero, ritto sul trattore Fiat arancione, teneva in mano una strisciolina di carta corrispondente a ciascuna donna e, quando non distratto dalle nostre domande, la bucava con una pinza da tramviere per ogni cesto di vimini consegnato. Tentando un dialogo in dialetto tedesco, simile all’africaans degli olandesi, chiesi con garbo ad un bantù storpio e impaurito quanto avrebbe guadagnato quel giorno. Non capendo la risposta, infilò a fatica la mano nell’unica tasca non bucata dei due calzoni che indossava e ne cavò il suo portamonete. Era una scatoletta di fiammiferi svedesi che le sue dita deformi non riuscivano a sfilare per farmi vedere pochi centesimi di Rand. Feci per aiutarlo, ma lui si ritrasse sbarrandomi uno sguardo che non dimenticherò mai e scappò temendo di essere rapinato. Non mi fu concesso nemmeno di lasciargli una piccola mancia e venni redarguito dal boero con la tesa del cappello ritta. Mi ci vollero vent’anni per far pace con i vini sudafricani con l’unico Sparkling allora disponibile in un resort egiziano. Era successo che dopo 27 anni di galera, Nelson Mandela aveva sconfitto l’apartheid ed era diventato presidente del suo Sud Africa. Aveva imposto la sua idea pacificamente, aveva cambiato i connotati dei duri con la persuasione. Non so che fine abbiano fatto né il bantù, né il boero. Spero stiano bene entrambi anche se il bantù avrebbe diritto di stare meglio e in cuor suo lo sarà, grazie a Madiba.
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