di Silvia B.
Alle otto e mezza del mattino a luglio c’è già un sole splendido, ma ancora non caldo. La luce bacia qualsiasi superficie e il concetto di ombra appartiene a un passato recente. Sento i gabbiani, nonostante io sia nel centro della città, e mi sento vicina al mare. Gli spazi ampi della Gran Via e il bianco della maggior parte degli edifici, altissimi, imponenti, rendono tutto ancora più luminoso e lo spazio tra una persona e l’altra diventa quello giusto, non troppo stretto, non accalcato e intollerante, non troppo largo, non freddo e solitario.
La gente cammina senza il timore di incontrarsi, e per questo non si scontra mai. Nessuno ha da difendere il proprio spazio, nessuno impone la propria traiettoria.
Il buongiorno non è uno solo, qui mi augurano “buoni giorni”, un plurale che ad ogni saluto ti fa sentire un po’ al 31 dicembre, come se nei sorrisi degli occhi fossero riflessi i bicchieri di un brindisi alla gioia. È un po’ questa l’aria che si respira intorno alle 10 di mattina, quella di una festa a sorpresa in cui siamo tutti festeggiati e nessuno sa di esserlo. L’allegria è la stessa di quando finisce la scuola e finalmente si possono mettere via i libri.
Quasi tutti i posti sono buoni per fermarsi a uscire dall’antipatica condizione del digiuno notturno, proprio così, con un dis-digiuno che non guarda l’orologio, né i gradi fuori, né tanto meno le calorie per essere solo a colazione. E quindi un pensiero in meno, ad ogni tuffo di “churros” in una cioccolata calda fuori tempo massimo.
È davvero difficile arrivare alla meta prefissata al mattino in questa minivacanza, senza fermarmi in ogni negozio e in ogni Zara store, che mi offre dei “rebajas” troppo interessanti. Perfino il mio fidanzato, inizialmente avverso al solo concetto di shopping, si concede più di un sacchetto di occasioni estive. Non che sia stato semplice trovarlo questo store di Zara, pur avendone uno praticamente a 100 metri dall’hotel e uno davanti a noi mentre chiedevamo indicazioni. E a proposito, qui gli autoctoni sono trasparenti. Se ti devono ridere in faccia lo fanno. Non ridono di te, ridono con te.
Siamo qui solo da 4 o 5 ore e già l’orologio è diventato un ornamento da polso. Non mi interessa più che ore sono e non mi chiedo più se “farò in tempo a…” miracolosamente riesco in tutto, e quello che non entra nella giornata, entrerà un domani, e se no… “no pasa nada”. Smetto quindi di contare non solo le calorie, ma anche i soldi che spendo e le ore che passano e le ore di sonno che mi mancano. Da sistema matematico di cifre e operazioni incrociate, divento una simpatica ed evidentissima turista, vuoi il cappello di paglia un po’ troppo forzato, vuoi il fiore dietro l’orecchio, vuoi il mio spagnolo perfetto solo per dire “gracias” ammicando con la testa perché mi piace tantissimo. Gli unici conti che tornano nella vita forse sono quelli che non si fanno.
La città trasuda una leggerezza strana. Non è superficiale né spudorata. È piuttosto serena di quello che è. E così ogni persona che la cammina. Vedo cose diverse da quelle viste in Italia. La prima che mi balza agli occhi, e forse la più forte e la più bella: le coppie gay. Serene, felici, mano nella mano, come me e il mio fidanzato. Nessuno li guarda strani. Una specie di mondo ideale ma concreto e reale. Senza forzature o esagerazioni. La seconda, e di questa ne sono quasi più felice, donne normali. Tonde magari. Vestite alla moda. Riempiono perfettamente ogni cellula e non soffrono i propri confini. Una sicurezza che non è mai volgare. Una consapevolezza del proprio corpo altra da ogni canone. Mi sento subito normale anche io. E la sensazione più bella è sentirmi bella così.
Altra cosa che immediatamente mi salta agli occhi è la bassissima percentuale di cellulari e tablet e smartphone. Ovunque, o meglio, da nessuna parte. Non si vedono nemmeno sui mezzi. Qualcuno legge un libro, altri conversano, altri ancora fanno una cosa che non ho quasi mai visto a Milano: niente. Guardano un punto, ma non sono assenti. Credo che stiano pensando.
Da turista, capisco immediatamente come viene trattato un turista in Spagna: al meglio delle possibilità. Tutto il contrario di quello che purtroppo spesso accade in altri posti. Dove il concetto di qualità è inesorabilmente legato al concetto di costoso e tendenzialmente per menù turistico si intende una gran sola a un piccolo prezzo a base di piatti scongelati e riscaldati. Del resto la cultura parla chiaro: dimmi tu quanto valgo, valuta tu il servizio che offro. Per mancia a Madrid non si intende un ulteriore esborso che affronto per mia scelta quando sono proprio contento di quello che ho ricevuto, ma la misura di quanto sono stato accolto bene in questo locale. Il servizio e il coperto non sono mai inclusi nello scontrino, affinché sia l’ospite ad avere la facoltà di valutarlo. E non ci si trova male, neanche se sei un ristoratore, perché l’onore in Spagna è fondamentale e praticamente nessuno esce senza esprimere la propria valutazione. Mi sembra che il paese veneri alcune cose: la gioia di vivere la vita, il rispetto per l’altro e per i luoghi comuni (ho visto gente raccogliere da terra cose non proprie per evitare ad altri il rischio di farsi male – più di una volta), e il prosciutto. La città inneggia ovunque “jamon” dedicandogli veri e propri musei, propinandolo in ogni forma (anche di Pringles!) a colazione pranzo e cena. Il tutto annaffiato da ottima “Cerveza”, che nonostante il basso tasso alcolico, mi ha fatto vedere un po’ sfocati alcuni dettagli della meravigliosa Cattedrale madrilena.
Sempre più nitida si fa purtroppo la realtà di tornare a casa, e mi accorgo di aver ripreso a contare già in volo verso l’Italia, quando la fotocamera riprende i confini tra la terra e il mare dall’alto e nel frattempo non posso non fare la proporzione inversa tra quanto tempo ci ho impiegato a sentirmi felice in Spagna e quanto ce ne vorrà per farmi passare la nostalgia in Italia.