Magazine Diario personale

Maestria elementare

Da Icalamari @frperinelli

Drusilla Cappaduia coltiva alcuni particolari hobbies, dei quali il più strano consiste nell’arrampicarsi sui supporti più alti che riesca a trovare e rimirare il paesaggio assumendo astruse pose plastiche. Un altro suo hobby è il lallalelismo, del quale purtroppo non sappiamo cosa pensare, non avendo ancora ben capito in che consista. Pare però che Drusilla ci si applichi con particolare dedizione e profitto, e che chi è in grado di apprezzare le sue qualità veda in lei un diamante grezzo. In realtà la ragazza non dispone di poi così tanto tempo per i suoi trastulli, è costretta a lavorare per mantenere una cospicua prole, che si è manifestata nella sua vita dalla sera alla mattina, così, come per magia.

Proprio durante una sessione lavorativa piuttosto defaticante, Drusilla ricevette una telefonata. La donna che le rivolse la parola in era preda all’affanno e, prima di presentarsi si sincerò di avere, all’altro capo dell’apparecchio, la persona giusta. Solo dopo aver ricevuto adeguate rassicurazioni, si qualificò come la maestra dell’ultimo figlio di Drusilla, che aveva appena iniziato la prima elementare, e si dilungò in preamboli per dire che il bimbo non si era fatto niente, cioé… adesso stava bene, però, due ore prima eh, era caduto giocando e si era sbucciato le ginocchia, e forse era stato per la spinta di un altro bambino, che però si era scusato subito. Druislla si allarmò, temendo che le stesse annunciando un danno fisico.

Ma nei successivi dieci minuti la maestra, con una discreta capacità oratoria, portò la lallalelista a tempo perso a concludere da sola, e ad alta voce, che “davvero” non era successo niente, e che suo figlio piangeva ancora in quel momento, ma per motivi suoi (ma certo, non era abituato a cadere, era un bambino di città e si lamentava anche per una pellicina tirata della falange). La rampinista in erba, conquistata la calma, la mantenne anche quando, al termine della giornata, vene a sapere che il bambino che aveva dato la spinta al proprio era di etnia Rom. Glielo aveva indicato lui stesso, dicendo “è stato quel bambino”, e non aggiungendo altro aggettivo o epiteto.

La storia recente di Drusilla comprende circa otto anni trascorsi entrando e uscendo da un paese straniero che, secondo buona parte dell’opinione pubblica italiana (non sua), sarebbe inferiore al nostro per cultura. Questo il verdetto nazional-popolare diffuso nell’autunno di sette anni prima, quando, a colpi di mass media, si trattò di stabilire la supremazia tra due modus vivendi, il nostro e quello della nazione d’origine di una certa bambina sottratta per giorni da “benefattori” italiani a quello che a loro opinione ritenevano fosse un triste destino, che l’attendeva al rientro nella propria terra natìa.

In quegli anni aveva frequentato soprattutto bambini abbandonati e problematici. Che avevano le ginocchia sbucciate -e questa era la loro parte sana- ma anche l’anima spesso e volentieri molto più provata da una vita veramente pesante. Ogni tanto c’era un’epidemia di pidocchi nei loro orfanatrofi, e allora via tutti i capelli, che tanto poi ricrescono. Non sono quelle, non le questioni di forma, le cose importanti per un bambino, pensava e pensa tuttora Drusilla.

Lei, quando aveva saputo della presenza di un piccolo Rom in classe di suo figlio, dentro di sé aveva pensato che si trattasse di un’opportunità per lui. Per entrare in contatto con una cultura differente, e crescere (bene) attraverso in un sano confronto (che poteva anche diventare scontro, perché no) tra bambini, in un contesto protetto come quello scolastico. Non avrebbe mai scagliato la prima pietra per inchiodare “il colpevole” alle sue “responsabilità” e dare corso quella campagna di denigrazione dell’elemento problematico, anticipata da mormorii e “speriamo bene” già prima del primo giorno di scuola, quando si era saputa la composizione delle classi.

Drusilla ama la musica, e tra i compositori italiani, ce n’era uno che le era entrato nel cuore, ai tempi in cui… Vabbé, lasciamo andare, è un’altra storia.

Ricorda la lavoratrice controvoglia che Luigi Tenco, nell’alveo della contestazione pre-sessantottina, compose una canzone che accusava apertamente di ipocrisia le istituzioni, partendo dal gradino più “basso”, i maestri elementari.

Cara maestra, / un giorno m’insegnavi / che a questo mondo noi / noi siamo tutti uguali. / Ma quando entrava in classe il direttore / tu ci facevi alzare tutti in piedi, / e quando entrava in classe il bidello / ci permettevi di restar seduti. [...]

La circolazione di Cara Maestra fu impedita per ben due anni, i tempi erano quelli che erano. La sua diffusione clandestina favorì il risveglio di un certo numero di coscienze e, pur tra mille distinguo, le cose sembrerebbero essere cambiate. Anche se prendersela col corpo insegnante oggi è facilissimo, in pratica uno sport nazionale. Se la scuola non funziona, non è colpa di uno stato che non trova pace nelle sue elaborazioni di astruse formule per il rinnovamento, e intanto indirizza male i propri fondi, ma piuttosto degli insegnanti, quegli scrocconi scioperati che hanno pure il coraggio di lamentarsi, con tutte quelle ferie che hanno a disposizione.

La società ha emesso il suo verdetto, e oggi Tenco sarebbe un menestrello di quartiere. Ecco come la pensa Drusilla. Pensa che quella umana sia la specie più evoluta sul pianeta grazie alla strutturazione di conoscenze, regole e valori comuni, la loro condivisione, trasmissione nei secoli, perfezionamento e consolidamento, attuati attraverso  l’organizzazione delle società. E che i bambini, in tutto ciò, siano una categoria a parte.

Lasciati a sé stessi durante la crescita, si evolvono molto poco rispetto al piano delle scimmie antropomorfe, questo è ciò che insegna l’osservazione di casi nemmeno tanto unici e rari di abbandono (il bambino-Tarzan può essere un’eccezione, i piccoli che vivono in branco nelle favelas e vengono accoppati dai poliziotti nelle strade del Brasile, è invece una mostruosità di cui nessuno parla), che ogni tanto vengono portati alla luce dalla cronaca, ma anche dalle conclusioni di alcuni studi socio-antropologici.

Dunque è la società nella quale vivono e crescono, e in particolare sono quegli elementi della società che sono più a contatto con i bambini (genitori e insegnanti per primi) a far sì che questi ultimi si trasformino durante la crescita negli ingranaggi di un meccanismo che dovrebbe avanzare compatto attraverso le epoche, per la sopravvivenza. Dovrebbe accadere, ma non è sempre così.

Le divisioni e i conflitti che si verificano tra etnie e popoli, come pure entro le più piccole frammentazioni della società, frenano pericolosamente questo processo. E lo fanno attraverso la cattiva educazione e l’abbandono dei propri elementi più fragili.

Il discorso sarebbe lungo e prenderebbe direzioni che non né lei né io sapremmo gestire. E poi siamo entrambe persone emotive, che riconoscono per prime di faticare a uscire dagli schemi del pregiudizio.

Evitare di distorcere la realtà, di effettuare discriminazioni, di incidere negativamente sulla crescita dei più piccoli e sul futuro dell’intera società, pur senza esplicitarla, invece, è stata la principale preoccupazione della maestra che aveva telefonato a Drusilla e che aveva tenuto a parlarle anche la mattina successiva, per confermare di essersi capite bene il giorno prima.

L’esistenza di questo tipo di maestri è un soffio di speranza per tutti. È anche e soprattutto a fornire strumenti e a rafforzare il loro ruolo che andrebbero rivolte le strategie di uscita dall’emergenza di una società in crisi come la nostra. Nell’attesa, signori maestri, io e la cara Drusilla vi ringraziamo preventivamente e vi auguriamo un buon anno (scolastico), e di fare e di poter godere i frutti di un ottimo lavoro.


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