Magazzino 18 di Simone Cristicchi: un viaggio nella memoria

Creato il 16 aprile 2014 da Masedomani @ma_se_domani

Cheppalle. NON cheppalle il libro di Simone Cristicchi, spiegherò fra qualche riga il perchè. E neppure cheppalle lo spettacolo teatrale “Magazzino 18″. E, infine, certamente  NON cheppalle Simone Cristicchi, uno che mi suscita una simpatia mostruosa perchè non si accontenta, è costantemente alla ricerca di nuove avventure, e accetta tutti i rischi delle sue scelte.

No, io dico “Cheppalle” alle polemiche che imperversano su tutti i siti web che si siano occupati di “Magazzino 18″. Perchè a distanza di cinquante/settanta anni, e dopo decenni di silenzio su un tema che non poteva essere affrontato per non essere espulsi dalla comunità degli intellettuali ed essere bollati inequivocabilmente come “fascisti”, ancora si fatica ad affrontare la tragedia di una popolazione in fuga dalla propria storia, dalla propria terra, dalla propria vita con il rispetto che meriterebbe.

Cristicchi quel rispetto lo ha trovato partendo prima da un libro bellissimo (“Ci chiamavano fascisti. Eravamo Italiani” di Jan Bernas, edito da Mursia) e poi da poveri, semplici oggetti. Masserizie, sedie, tavoli accatastati nel Magazzino 18 del Porto Vecchio di Trieste. Oggetti che diventano umili simboli, che faticosamente ricordano come dentro la Storia, quella con la S maiuscola spesso scritta secondo la convenienza politica del momento, si nascondano infinite storie che di minuscolo hanno solo la lettera iniziale.

Potrebbe sembrare impossibile rispondere ai racconti di uomini e donne con una polemica storiografica. Potrebbe, ma non lo è. E allora via con la contestazione delle cifre, via con le citazioni dai libri di Storia degli anni settanta (…), via con i parallelismi cronologici, via con “hanno iniziato loro”, “no, hanno iniziato loro”, via con il tentativo di inquadrare il lavoro di Cristicchi in un disegno revisionista (?) di più ampia portata (??), di matrice squadrista (???).

Il tutto prodotto, pensato e pubblicato come se fosse necessaria una “risposta” a Cristicchi.

Il sorriso di Norma Cossetto

Cristicchi racconta, in letteratura ed in teatro, le storie di un popolo. La storia di Mafalda, che viene raggiunta in cella da un partigiano titino che si diverte a raccontarle come il corpo del fratello diciassettenne continuasse a sussultare anche dopo la morte. O la storia di Norma Cossetto, infoibata dopo notti di sevizie di cui non riesco neppure a raccontare. O quelle di chi, in fuga da quelle violenze, fu accolto alla stazione di Bologna da operai e ferrovieri al grido di “criminali”. Come potevano scappare dal “paradiso socialista” se non perchè pericolosi nazionalisti? Il presidio ferrioviario riuscì così bene che persino la Croce Rossa, intervenuta con latte per i bambini e acqua per i viaggiatori, venne fatta allontanare. A Bologna.

Ma davvero, davvero, è necessaria una risposta? E’ così importante appellarsi alla storiografia ufficiale, al testo universitario, ad una tesi o all’opinione contraria? Non è meglio, per una volta, alzare le dita dalla tastiera e leggere (o ascoltare) storie di uomini e donne rimasti invisibili per più di mezzo secolo?

Ha un gran coraggio, Simone Cristicchi. E ha scritto un libro che ti resta dentro, indigna, ti commuove. Merita un silenzio carico di ricordo e riflessione.

Alfonso d’Agostino


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