Berlino, 1928. In un teatro va in scena lo straordinario spettacolo di magia che vede protagonista l’illusionista cinese Wei Ling Soo con i suoi incredibili numeri, fra i quali il più eclatante prevede la sparizione di un elefante in scena. Dietro il trucco, ma sono in pochi a saperlo, come il suo vecchio amico e collega Howard Burkan (Simon McBurney), si cela l’identità dell’inglese Stanley Crawford (Colin Firth), uomo estremamente razionale, particolare mix di cinismo ed arroganza, tanto da far palesare una sorta di “complesso di superiorità” nell’evidente sforzo di spiegare ogni piega del quotidiano peregrinare alla luce di un’asettica concretezza, lontana da qualsivoglia spiritualità o spontaneo afflato magico. Il nostro ha inoltre smascherato tutta una serie di ciarlatani che si vantavano di possedere particolari fluidi o doti naturali, come la comunicazione con le anime dei trapassati, per cui rappresenta il classico invito a nozze la proposta del citato Howard di recarsi nella Riviera francese, presso la tenuta della facoltosa famiglia Catledge, dove tale Sophie Baker (Emma Stone) sembra ormai risiedere in pianta stabile insieme alla madre. E’ infatti in procinto d’impalmare Brice (Hamish Linklater), figlio della signora Grace (Jacki Weaver), cui ha promesso di mettersi in contatto col defunto marito. Ma nella vita di ogni essere umano vi sono misteri che vanno al di là di una spiegazione razionale e possono dare un forte impulso vitale se accettati in quanto tali …
Colin Firth (Movieplayer)
Presentato al 32mo Torino Film Festival (Sezione Festa Mobile), Magic In The Moonlight, scritto e diretto da Woody Allen, non può certo annoverarsi fra le sue opere più memorabili, verrebbe da definirla una pellicola di transizione, ma può vantare una regia “morbida” e fluida, tale da avvolgere situazioni e personaggi in un’atmosfera quasi sospesa nel tempo, sensazione ulteriormente avvalorata dalla fotografia di Darius Khondij, idonea ad ammantare di una particolare luce, rarefatta e calda allo stesso tempo, tanto ogni situazione prevista dall’iter narrativo quanto ogni singolo personaggio. La tessitura complessiva ordita da Allen, con sullo sfondo l’ormai usuale partitura jazz a far da contrappunto sonoro, omaggia poi sia certa letteratura (Fitzgerald) che il cinema d’antan, attuando in tal ultimo caso un’elegante combinazione fra i tipi della screwball e sophisticated comedy propri della Hollywood del tempo che fu. La sensazione dominante che però mi ha lasciato Magic In The Moonlight una volta uscito dalla sala è quella di essermi trovato al cospetto di un’elegante carillon, la cui musica è costituita dalla reiterazione di un déjà vu alleniano (l’illusione e la magia come alimento vitale idoneo ad accrescere la sensazione che possa esservi uno scopo “superiore” a reggere i fili dell’esistenza, per esempio) che ora assume toni volti ad un forse calcolato manierismo appena velato anche da una certa inconsistenza complessiva.
Emma Stone (Movieplayer)
Non giovano, almeno ad avviso di chi scrive, ad apportare un minimo di slancio empatico, pur nell’evidente tono affabulatorio dell’impianto narrativo (il raccontare per il puro piacere di farlo, altro tipico tocco dell’autore newyorchese), le pur valide prove attoriali offerte dall’intero cast (con una nota di merito alla zia Vanessa interpretata da Eileen Atkins), in particolare quelle determinanti di Firth e Stone, per quanto entrambi bravi e con fascino da vendere. Non sempre il primo riesce infatti ad esprimere con vibrante e crescente emozione il passaggio da uno scetticismo autoimposto e reprimente ogni emozionalità alla gioia propriamente fanciullesca nello scoprire che “il mondo può essere privo di scopo ma non di una certa magia”, mentre la seconda non mi è sembrata riuscire a garantire un trasporto meno calligrafico nel visualizzare e rendere palpabile tale ritorno alla vita del disilluso prestigiatore, un palcoscenico dove “non vi è trucco non vi è inganno”, ma semplicemente la volontà di accettare determinati accadimenti accogliendo nel proprio bagaglio esistenziale anche irrazionalità e sbigottimento.
Firth e Stone
Probabile che al buon vecchio Woody sia stato a cuore racchiudere all’interno dell’elegante confezione, fra frivolezze ed ironia, più che l’illusione della magia la magia dell’illusione, pardon per l’involontario calembour, nell’intento di voler cristallizzare una particolare sensazione positiva, forse anche romanticamente effimera, nell’affidarsi ad una particolare necessità di assoluto che può anche risiedere nel cuore di ogni essere umano. Quanto basta per uscire dalla sala con un leggero sorriso, venato di malinconia, pensando a quel magico chiaro di luna che forse a qualcuno, in un giorno apparentemente come tanti, ha cambiato la vita, eventualità da mettere in conto anche per quanti vorranno lasciarsi avvolgere dalla sua luce, in sospensione verso l’eternità.