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Come nel piuttosto recente "Incontrerai L'Uomo Dei Tuoi Sogni" allora, a fare da spina dorsale a "Magic In The Moonlight" è il classico dilemma esistenziale in cui ci si interroga sulla presenza di qualcosa di sovrannaturale capace di andare oltre quel reale a noi comprensibile e, spesso, poco soddisfacente. La risposta da parte sua Allen l'aveva già fornita in più di un occasione, ma nonostante ciò non disdegna l'opportunità di rimettersi in discussione, provando a smentirsi e ammorbidendosi un pizzico. Perché, in fondo, come per il personaggio cinico e pieno di sé interpretato da Colin Firth (palesemente alter ego del regista), alla sua età, al vecchio Woody, non spiacerebbe affatto scoprire di avere sempre avuto torto, trovare qualcuno in grado di smentirlo e, magari, fare la figura dello stolto di fronte al suo pubblico in cambio di una prospettiva più felice e alta dell'esistenza. La buona volontà ce la mette, quindi, Allen, e per qualche istante da pure la sensazione di essere riuscito per davvero a trovare la svolta per cambiare (o sfumare) alcune delle sue opinioni e concetti riguardanti la religione, la filosofia e la scienza, salvo poi rendersi conto all'improvviso di risultare ridicolo a sé stesso e riprendere coscienza, virando quella che poteva essere una eventuale ritrattazione in una semplice romantic-comedy che fa da cuscinetto a lui e da soffice coperta calda a noi.
La parabola su sfondo anni '20 dello Stanley protagonista infatti, prima di risolversi in un finale tendenzialmente buonista e smielato, ci pone di fronte a una figura umana fredda ed arrogante, riluttante verso il prossimo, specialmente quando questo appare incline ad ingannare o a voler essere ingannato da qualsiasi altra persona non sia lui stesso: illusionista di professione, acclamato nel mondo. Una personalità dominata da raziocinio e logica dunque, calcolatrice, lontana dall'uomo carne e ossa e assai più vicina all'automa: per questo difficile se non impossibile da penetrare e scaldare. L'estremizzazione più determinata e altezzosa di Allen, insomma, costruita appositamente dal regista attraverso il solito processo di autoanalisi per rendere ancora più netto il contrasto successivo in cui - per via di una Emma Stone incantevole e (forse) genuina veggente - quell'armatura che appariva solida e saldata al corpo, viene smontata pezzo dopo pezzo, lasciando entrare spiragli di luce in un anima fino a quel momento reclusa se non addirittura assente. Un miracolo che Allen si concede per provare, almeno nella finzione, a convivere e ad avere un confronto con quella fede che sente il bisogno di esplorare da capo a piedi prima di rinnegare completamente in via definitiva, raggiungendo quella pace interiore da tempo inseguita, ma non integralmente conquistata.
Illudere noi stessi comunque è l'errore più grande che potremmo commettere e questo Allen lo sa meglio di chiunque altro. Per cui se alla fine non se la sente di chiudere entrambi gli occhi e proseguire il viaggio verso quella che poteva essere la sua redenzione divina, se preferisce restare fedele al suo percorso e al suo credo e ribadire la sua testardaggine ad ogni costo, per noi è, oltre che comprensibile, anche un discreto sollievo. Pensare che la vecchiaia potesse aver appianato i suoi punti di vista, cambiato quelli che erano i suoi capisaldi, sinceramente sarebbe stato un qualcosa con cui avremmo fatto fatica a convivere e a ragionare.
Noi Woody lo preferiamo così come abbiamo imparato a conoscerlo, grandemente cinico e pungente nei confronti della vita e dolce sognatore, romantico nei confronti dell'amore: la sola magia che sa renderci umani e in cui ciecamente tutti crediamo.
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