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Dallo Studio 54, dove Tony Manero sognava di diventare un grande ballerino, all'Xquisite, club di spogliarellisti in cui Mike sbarca il lunario ballando e spogliandosi per la scatenata platea femminile. Con le dovute distinzioni e aggiornando agli scenari contemporanei la liturgia del divertimento e dello sballo, Steven Soderbergh compie un'operazione analoga a quella che nel 1977 rese John Travolta una star planetaria, realizzando un film che racconta uno spaccato dell'american way of life.
"Magic Mike" ruota attorno al popolo della notte e alle esibizioni notturne degli esuberanti stripper e ripercorre in maniera paradigmatica sogni, cadute e redenzione di una gioventù che cerca di realizzarsi rincorrendo il mito dei soldi e del successo facile. Ecco allora Mike, detto "Magic" per motivi di body language, che nel pieno della sua ascesa professionale decide di prendere sotto la sua protezione il giovane Adam, al secolo "The Kid", insegnandogli i trucchi del mestiere. Un altruismo pieno di buone intenzioni ma complicato dai comportamenti della recluta, quasi subito fagocitato dalla frenesia di un mondo regolato da pulsioni primordiali. Saranno proprio le vicissitudini del giovane amico, e anche la presenza di una ragazza di cui Mike si innamora, a mettere in dubbio le inossidabili certezze del baldanzoso protagonista.
Ultimo atto di un percorso eclettico ma discontinuo, "Magic Mike" rappresenta per Soderbergh un ulteriore cambio di registro. Infatti, pur mantenendo invariate le caratteristiche di eccentricità dei suoi personaggi e la particolarità degli ambienti in cui le storie del regista americano si producono, questa volta Soderbergh sembra essere meno vivace, come se la sua voglia di sperimentare e di provocare si risolvesse nell'esteriorità plastificata e muscolare dei corpi tirati a ludico, nelle loro esibizioni colorate di luci stroboscopiche e nel visibilio del pubblico adorante. Un allestimento, quello che il film mette insieme, di ottima fattura, con coreografie che potrebbero fare invidia a un musical di Broadway e che certamente devono aver stuzzicato il puritanesimo del pubblico americano che ha abboccato senza remore al clima pruriginoso sparso ad arte tra le note di presentazione della pellicola. In realtà, fatto il callo alla novità dell'incipit, e dopo una prima parte in cui la storia sembra voler riflettere in maniera critica su ciò di cui sta parlando, "Magic Mike" si toglie di dosso i panni ingombranti, almento in termini di incassi al botteghino, del cinema d'autore per abbracciare un mainstream in cui effetti sentimentali, sensi di colpa da ultimo minuto e finale da vissero felici e contenti prendono il sopravvento su tutto il resto. Certamente non mancano momenti efficaci, come gli assoli di Matthew MacConaughey nella parte del boss della baracca che, alla maniera del Tom Cruise di "Magnolia", ci da un saggio di recitazione con un manifesto esistenziale di raro cinismo e spietatezza. D'altra parte non è da meno la recitazione tutta fisica dell'ormai lanciatissimo Channing Tatum, ma alla fine anche lui deve sottostare a una scrittura poco coraggiosa che sembra voler salvare tutti, buoni e cattivi, senza nessuna eccezione.
Da vedere ma senza grandi aspettative.
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