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Magic moments vol.I

Da Shappare
Voi ch'ascoltate in rime sparse il suono
di quei sospiri ond'io nudriva 'l core
in sul mio primo giovenile errore
quand'era in parte altr'uom da quel ch'i' sono,

del vario stile in ch'io piango et ragiono
fra le vane speranze e 'l van dolore,
ove sia chi per prova intenda amore,
spero trovar pietà, nonché perdono.

Ma ben veggio or sí come al popol tutto
favola fui gran tempo, onde sovente
di me mesdesmo meco mi vergogno;

et del mio vaneggiar vergogna è 'l frutto,
e 'l pentersi, e 'l conoscer chiaramente
che quanto piace al mondo è breve sogno.

(F. Petrarca, RVF, I)
 
La mia carriera di maneater è cominciata esattamente come è proseguita: in maniera ridicola.
A quindici anni sono andata per la prima (e in pratica ultima) volta in discoteca, con due amiche. In pochi mesi ero passata da semi-cesso preadolescenziale a ragazza bionda e discretamente carina, però chi è stato un semi-cesso preadolescenziale sa perfettamente che quello status segna i rapporti interpersonali a vita.
Perciò mi muovevo con circospezione e goffamente (quelli di voi che hanno la fortuna di conoscermi capiscono che in parte lo faccio ancora), non sapevo dove stare né con chi parlare. Le mie due amiche mi hanno presto lasciata sola, avendo “fortunosamente” incontrato i rispettivi amori dell’epoca.
Allora ho fatto l’unica cosa che potevo fare, quella che ogni madre raccomanderebbe a sua figlia: ho iniziato a bere tutto quello che mi offrivano.
Ovviamente non ricordo molto del resto della serata, ma devo aver ballato e soprattutto devo aver dato il mio numero a qualcuno, perché quel qualcuno il giorno dopo mi ha chiamata, mentre ancora cercavo di smaltire la sbornia.
Dirò solo che si chiamava Egidio (cioè, Egidio…) e che quando l’ho incontrato per dirgli che non avevo intenzione di uscire con lui perché mi piaceva un altro, mi aveva risposto che, siccome ero una bella ragazza, era suo dovere provarci con me. Deontico.
Ora, se pensate che io abbia sfoderato una scusa per liberarmi di questo asso del corteggiamento, vi sbagliate: nell’estate del 2002 ero all’apice del mio innamoramento, cose che non avrei più nemmeno potuto immaginare.
Si chiamava Daniele, giocava a pallavolo con Fratello, mentre sua sorella era il capitano della mia squadra; di origini etiopi, alto due metri, bellissimo, simpatico e alla mano. Per un anno avevo cercato di non svenire al suo passaggio, poi eravamo diventati amici, durante una vacanza assieme. L’estate dopo, forte del non essere più il semi-cesso di una volta e degli incoraggiamenti delle amiche (“si vede che è interessato, è solo che è un po’ strano”), decido di fare il grande passo: la mia prima dichiarazione.
Lo avvicino alla cena della società, non facendomi smuovere dalla sua maglia nera senza maniche ma con un maestoso capricorno stampigliato:
“Dano, ehm… dovrei parlarti”
“Certo. Dimmi tutto”
“Ecco, io…”
“Senti, usciamo domani pomeriggio, vuoi?”
“Ok”
Non so quante ore ci abbia impiegato a prepararmi, il giorno dopo; ricordo che avevo i pantaloni bianchi e credo sia da quel giorno che ho iniziato a detestarli.
Insomma andiamo in questo locale, “Afriche”, pieno di maschere di legno e suppellettili tremende e lui ordina un intruglio con ananas e qualche altra schifezza, di color piccione giovane (non quelli grigi, quelli ancora bianco-marroncini).
Mi dice dai, parliamo. E io faccio la cosa più stupidamente femminile che possa fare: inizio a piangere senza ragione. Disperatamente.
Allora lui va in crisi, cerca frenetico un pacchetto di fazzoletti in tasca, e – nella foga di porgermelo – rovescia il beverone spalmandolo su una fila di tavolini bianchi. Mentre la cameriera si dà da fare per ripulire il piccion-casino, io continuo a piangere anche quando ormai mi dovrei rendere conto degli infausti auspici e chiudere la giornata su un adgnosco veteris vestigia flammae.
Invece in qualche modo faccio il discorso che mi ero preparata (quantomeno un sunto) a un viso sempre più imbarazzato.
Quando ormai non riesco più ad articolare un suono che abbia quantomeno un’umana parvenza, taccio e aspetto la mia sentenza in silenzio.
Daniele si schiarisce la voce, mi prende la mano ed entrambi vorremmo essere da tutt’altra parte. Dice vedi, tu saresti la ragazza perfetta per me, perché sei bella, simpatica, colta, intelligente…
Dico Dano, per favore, arriva all’avversativa.
E’ che vedi, risponde, non sei tu. E’ la tua… “categoria”.
A quel punto ricordo solo di averlo guardato brevemente negli occhi, per cercare una chiave di lettura che non fosse quella così crudelmente evidente, ma lui “E’ da un po’ che volevo parlartene, sei la prima a cui lo dico”.
Io non emetto suoni, poggio solo la testa sulle braccia conserte e assaporo l’odore del detersivo con cui la cameriera ha lustrato il tavolino, mentre lui dice S., ma piangi o ridi, ti prego, fammi almeno un segno.
Solo che io stavo sia ridendo che piangendo.
Poi mi riaccompagna a casa a braccetto, forse temendo - per il mio stato a dir poco penoso (a voi mancano i quindici anni? A me no) – che prendessi la via del castello e della torre da cui si gettano i suicidi per amore.
 
Ovviamente siamo diventati ancora più amici: ci sentiamo, pranziamo insieme, ci scambiamo libri, consigli e commenti.
Ovviamente è rimasto il mio grande amore, e tuttora spesso mi tocca affrontare scenate di gelosia del mio fidanzato a causa sua perché “non mi hai mai guardato come guardi lui”.
Ovviamente per un buon periodo è stato il metro di giudizio di tutti i ragazzi con cui uscivo.
Ovviamente in parte lo è anche adesso che è andato a stare in Australia con il suo splendido Robert (ma mi dicono che si siano lasciati e che tornerà).
 
In fin dei conti, considerato il bilancio di quel che è stato dopo, buona la prima.

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