Nota introduttiva del dott. Vincenzo Scarpello in occasione del convegno “Maglie, il Salento e l’Unità d’Italia” organizzato dalla sezione del Basso Salento di Società di Storia Patria per la Puglia” – Maglie 4 marzo 2011.
Ho particolare piacere nell’introdurre questo incontro […nel quale si riscopre] la figura straordinaria per la cultura salentina e nazionale di Girolamo Comi, modello di aristocratico ed intellettuale, alla cui umiltà antidogmatica ed al cui pensiero poetico e filosofico in molti dovrebbero guardare con interesse. Comi fu forse l’unico, ultimo “Gattopardo”, esponente di quella nobiltà agraria che sopravvisse al risorgimento e nel suo pensiero si può cogliere tanto uno sconfinato amore per la sua terra e per le sue tradizioni millenarie, quanto la considerazione che la storia d’Italia non nasce nel 1860, ma ha radici molto più profonde, che hanno come punto di convergenza Roma. Per meglio spiegare questo punto leggerò un passo di uno dei quattro grandi padri della filosofia italiana contemporanea:
«Roma è città imperiale e città papale: in ciò sta la sua grandezza universale. La “Terza Roma” non è che una sporca città di provincia, un sordido nido di travetti, di albergatori, di bagascie e di parassiti. Mentre le due fasi della storia di Roma, l’imperiale e la papale, hanno lasciato traccia immortale, la breve parentesi dell’occupazione sabauda, unica traccia di sé, il Palazzo di Giustizia, statue di gesso e grottesche imitazioni decorative: nato tra lo scandalo dei fornitori ladri e dei deputati patrioti corrotti, esso è degno di albergare la decadenza giuridica della società contemporanea. Per questo la questione romana non è risolta. Non potevano risolverla le cannonate del re Savoia. La violenza militarista non piò risolvere i problemi internazionali. E la questione romana è un problema internazionale […]»
(L’Ordine Nuovo, rassegna settimanale di Cultura Socialista, 2 Ottobre 1920).
In ciò si coglie un fatto storiograficamente rilevantissimo, ossia che la percezione che l’Unità d’Italia per così come venne messa in atto attraverso il risorgimento, fosse un fenomeno estremamente problematico, era già molto ben definita da molto prima che quella “storiografia pioneristica” di analisi critica del fenomeno storico del risorgimento (Alianello tra tutti, senza dimenticare De Sivo) mettesse mano agli archivi duo-siciliani e sabaudi e ne contestasse le modalità di sviluppo.
La moderna storiografia che oggi affronta senza intenti retorici o denigratori il fenomeno risorgimentale ha individuato tre principali questioni che sono sorte a seguito dell’Unificazione italiana: una questione istituzionale, con la prevalenza dell’impianto istituzione centralista e statalista, sul modello francese (si è cercato di applicare all’Italia, come avviene da sempre, un modello istituzionale che non le si confà), su un modello di stampo federalista, così come era avvenuto in Germania, dove il Reich, sulla base di una secolare storia di stati liberi ed indipendenti, non fece altro che costituirsi quale istituzione Sussidiaria, che interveniva quando le autonomie locali non potevano con le proprie risorse autogestirsi.
Il secondo profilo di problematicità fu la questione cattolica, con l’esclusione dalla vita politica fino all’inizio del ‘900 dei cattolici e della Chiesa, contro i quali era stata costruita la mitologia di una vera e propria religione laica, fatta di un dogmatismo storico nel quale il sangue dei martiri e dei patrioti caduti (presentati secondo i canoni popolari delle biografie dei Santi) era parificato a quello dei martiri e dei Santi cristiano. Questo modello di religione laica dello Stato, negli intenti dei costruttori della mitologia risorgimentale, avrebbe ben presto sostituito la Religione Cristiana.
Infine vi fu una questione meridionale, alla quale influirono non soltanto le modalità con le quali era stato posto in essere il processo di annessione del Regno delle Due Sicilie, ma anche l’apporto di quei nuovi ceti che sostituirono la vecchia classe dirigente e che segnarono nuovi assetti politici ed economici, dei quali si avvantaggiarono in realtà ben pochi, una parte della vecchia aristocrazia terriera, una parte dei militari, frustrati nelle loro aspirazioni di carriera e la nascente borghesia, che per scarsità delle terre disponibili sulle quali investire la mole di denaro contante che era stata da loro accumulata grazie ai commerci ed alla nascente industria che prosperava nel Regno Borbonico. Vennero attaccate prima le terre comunali, concesse con l’antico contratto di livello, diffuso sin dall’Alto Medioevo, a contadini e dalle quali essi traevano il proprio sostentamento, ed i boschi e le terra gravati da quegli usi civici grazie ai quali buona parte della popolazione meridionale poteva trarre di che da vivere. Poi vennero attaccati i patrimoni delle Chiese e dei monasteri, che erano sopravvissuti agli espropri napoleonici, sempre grazie ai quali viveva con dignità la restante parte dei contadini meridionali. Questi sono solo alcuni degli aspetti problematici che influirono nella formazione dello Stato italiano e nell’elaborazione della coscienza nazionale.
E la Terra d’Otranto, […], costituisce un paradigma dei grandi mutamenti che l’Unità d’Italia comportò nelle campagne, comportando squilibri ed ingiustizie delle quali ancora oggi stiamo pagando lo scotto.
Concludo con una citazione di Antonio Gramsci che ben inquadra storicamente con la lucidità che lo caratterizza, il modo con cui lo stato sabaudo produsse questi mutamenti.
«Lo stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono d’infamare col marchio di briganti»
(Antonio Gramsci in “Ordine Nuovo”, rassegna settimanale di Cultura Socialista, 1920).