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Maglie, 150° Anniversario dell’Unità d’Italia. Atti del ciclo convegni (III – II° pt)

Creato il 28 marzo 2011 da Cultura Salentina
Nota introduttiva del dott. Vincenzo Scarpello in occasione del convegno “Il Sud tra Risorgimento e Brigantaggio. Conquista, Insorgenza, Unità” organizzato dalla sezione del Basso Salento di Società di Storia Patria per la Puglia” – Maglie 11 marzo 2011.

La conquista del Sud sarebbe dovuta partire dalla Sicilia, regione sfiancata dalle continue insurrezioni mazziniane, le ultime delle quali erano guidate da Rosolino Pilo, e che vennero tenute a bada dalla polizia duo siciliana, nella quale comunque divampava uno spirito di rivolta maggioritario nei possidenti terrieri e nei ricchi borghesi siciliani, che mal vedevano la politica agraria e daziaria di Napoli e che non avevano mai accettato l’unificazione dei due Regni, in virtù di un antico spirito di autonomia mai sopito.

Vanno comunque ancora chiariti alcuni punti salienti nell’ambito della storia militare della Conquista del Sud, che mi limiterò solo ad accennare, rimandando ad una futura trattazione sistematica un tentativo di soluzione:

il primo:  il ruolo influente e significativo degli inglesi in Sicilia, dove avevano interessi economici rilevanti (proprietà terriere, la questione degli zolfi) e che praticamente controllavano la difesa militare dell’isola, con il comandante della piazza di Palermo, Paolo Ruffo di Castelcicala, che aveva servito a Waterloo nel 6° reggimento dragoni, aiutante di campo di Wellington, e con il comandante della squadra navale chiamata ad impedire lo sbarco, Guglielmo Acton, cugino del più celebre politico inglese liberale Lord Acton, il quale intervenne volutamente in ritardo, a sbarco già avvenuto dei Piroscafi Piemonte e Lombardo che portavano i mille, il cui sbarco venne da lontano controllato dalle navi inglesi, la Argus e la Intrepid provenienti da Palermo.

Il secondo: la condotta del Castelcicala, che con 25.000 uomini presenti sull’isola, preferì rimanere fermo nella piazza di Palermo, mentre l’anno prima aveva efficacemente contrastato un simile sbarco a Terranova (Gela), non facendo nulla quando il contingente di 3000 uomini guidato dal Generale Landi rimase ad Alcamo, mandando contro  i 1170 garibaldini e i 2000 picciotti siciliani del Crispi a Calatafimi, una sola avanguardia esplorativa, tra cui l’ VIII battaglione cacciatori guidato dal maggiore Sforza, che, nonostante l’inferiorità numerica, con una sola carica aveva travolto i garibaldini, gettati letteralmente nel panico e pronti ad una ritirata disastrosa: lo Sforza ebbe l’ordine illogico, dato dal Landi, di ritirarsi, nell’incredulità di tutti i partecipanti alla battaglia.

Il terzo: il comportamento assurdo del generale Ferdinando Lanza, chiamato a sostituire il Castelcicala, che non riuscì a sfruttare l’abilità di movimento di ufficiali come il leggendario colonnello Bosco o il Von Machel, che dapprima erano riusciti a bloccare a Garibaldi la via diretta per Palermo e poi, presso Monreale, avevano letteralmente sbaragliato le bande di Roslino Pilo, che cadeva in combattimento e che stava conducendo un’azione di guerriglia. Il Lanza sembrava paralizzato dopo le scaramucce di Porta Termini, non fu in grado, inspiegabilmente, di avere ragione con 18.000 soldati, di pochi insorti, preferendo adottare il criterio della massa in campo chiuso, tenendo nelle caserme le truppe, dove è invece più indicato quello dell’economia delle forze. Ma non fu questo il punto. Bosco e Von Machel erano riusciti, dall’esterno, con le loro sole forze a spazzare via i garibaldini da Palermo, ma in questo momento avvenne l’armistizio delle truppe borboniche, e l’ordine, altrettanto inspiegabile, alla guarnigione di Catania, che aveva avuto ragione degli insorti, di ritirarsi verso Messina.

Il quarto: la prevalenza del fattore irrazionale nello scontro di Milazzo, fortezza in mano borbonica che Garibaldi voleva a tutti i costi riprendere. Contro di lui il solito colonnello Ferdinando Beneventano del Bosco, con 4000 uomini tra cui tre battaglioni di cacciatori, uno di cacciatori a cavallo ed 8 obici da 120 mm.  A Milazzo Bosco era riuscito a sconfiggere Garibaldi che, nel punto di rottura della battaglia, si trovò a rischiare la sua stessa vita, ma inspiegabilmente venne meno il rinforzo dei 1200 uomini del colonnello Pironti, e la nave borbonica Veloce, mandata in aiuto a Bosco, si mise a cannoneggiare i napoletani, dopo il tradimento e la corruzione del suo comandante Amilcare Anguissola ad opera del Conte di Persano, l’inetto sconfitto di Lissa.

Il quinto: la Calabria, dove il contingente duo siciliano si sgretolò letteralmente, col gen. Gallotti che impedì ai suoi soldati di prendere i garibaldini tra due fuochi, e l’inetto gen. Viall, a comando di 16.000 uomini a Vibo Valentia, che abbandonò l’esercito a se stesso, sancendone il disfacimento completo.

Il sesto: la mancata difesa della Lucania, del Salernitano e di Napoli dove i garibaldini entrarono senza sparare un colpo, dal momento che Don Liborio Romano aveva arruolato nella guardia cittadina i camorristi di Salvatore De Crescenzio, credendo di renderli inoffensivi, ma consegnano di fatto la Città nelle loro mani. E furono proprio i camorristi a fare da scorta nella Napoli riconquistata alla carrozza di Garibaldi e di Antonietta de Pace.

Il settimo, sul quale vale la pena soffermarsi, della battaglia del Volturno, nel corso della quale gli aspetti irrazionali della guerra arrisero ancora una volta a Garibaldi, che, dopo la vergognosa rotta di Capua, persa Castelmorrone e Santa Maria Capua a Vetere, fu costretto ad utilizzare le riserve di Caserta, contro le quali la Guardia napoletana, bamboccioni raccomandati, inviata contro i garibaldini in rotta dallo stesso Re Francesco, non fu in grado di imprimere alla battaglia la svolta risolutiva sperata, fidandosi delle concezioni tattiche antiquate del comandante in capo dell’esercito, Ritucci, che preferì una manovra di logoramento sulla sola sinistra dello schieramento garibaldino, sulla sua iniziale e più corretta strategia, elaborata personalmente, di investire i garibaldini centralmente e sui lati.

L’ottavo, il comportamento dei napoletani dopo il Volturno, dal quale non si ripresero e persero tempo prezioso, mantenendo le posizioni, invece di riorganizzarsi per una nuova manovra sui garibaldini, consentendo alle truppe sabaude, che irrompevano nel Regno dalle Marche e dall’Abruzzo, guidate dal tristemente noto Generale Cialdini, che si distinguerà per efferatezza nella spietata repressione del brigantaggio, e dopo il finto incontro di Teano, furono i piemontesi a raccogliere ciò che Garibaldi aveva seminato, ma trovando pure l’occasione di essere ignominiosamente sconfitti sul Garigliano da quello che rimaneva dell’Esercito dell’ormai moribondo Regno delle Due Sicilie.

E con Gaeta vorrei concludere questa mia lunga digressione storico militare, che dimostrano l’immenso valore di soldati ed ufficiali napoletani e l’inettitudine, la mala fede e qualche volta la corruttela degli alti gradi e della classe dirigente meridionale, con il comportamento del re e della regina, i quali, alla testa dell’esercito, resistettero sugli spalti della Cittadella, rincuorando i soldati e la popolazione, sui quali cadevano i colpi dell’artiglieria di Cialdini, coi modernissimi cannoni rigati Cavalli, che fecero strage (3000 morti) tra i 20.000 soldati rimasti fedeli a Francesco ed i 3000 abitanti di Gaeta, indistintamente. Del Bosco arrivò a Gaeta, e riuscì a compiere anche due sortite, ma i bombardamenti Piemontesi compiuti anche con i terribili “brulotti minatori” e l’epidemia di tifo, scatenata da Cialdini infettando l’acquedotto di monte Conca con carcasse di animali morti, portarono alla capitolazione della piazzaforte, che insieme a Civitella del Tronto e Messina era tutto ciò che restava del regno delle Due Sicilie.

Un’amara valutazione sorge in conclusione: mentre gli ultimi sovrani del regno delle due Sicilie riscattarono l’onore della loro dinastia, combattendo fino alla fine a fianco dei loro soldati, il discendente del Sovrano assediante, del quale pure portava il nome, Vittorio Emanuele III, invece di dimostrare per lo meno un briciolo di quella dignità che avevano dimostrato i sovrani Borboni, scapperà da Roma, 82 anni dopo, lasciando l’esercito italiano nella feroce balia dei tedeschi.

Solo restituendo onore a quei sovrani e a quei soldati, meridionali, che combatterono con valore per la loro Patria, reintegrandoli nel Pantheon degli eroi di tutta l’Italia, si potrà chiudere, almeno a livello simbolico, anche la terza grande questione lasciata aperta dal Risorgimento.


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