Enrico Letta sembra gustare la sobria felicità contenuta nelle piccole cose e vuole trasmetterla agli italiani. Rappresenta l’archètipo del contadino, piegato da secoli di servaggio e rassegnato agli umori e alla benevolenza del tempo, disposto ad apprezzare qualsiasi cosa passi il convento; oppure quello del travet gratificato delle attenzioni del Superiore per la sua diligenza lineare e inesorabile.
Un tratto caratteriale prezioso per navigare senza grosse ambizioni nella vita quotidiana e in epoche di assetti imperiali definiti, ma che possono facilmente trasformare negli attuali frangenti un Capo di Governo serioso, ma completamente assorbito nella pedissequa esecuzione delle routines imposte da forze invadenti, in un illusionista o peggio in un giocatore da tre carte.
Nei suoi quattro mesi di mandato ha manifestato solo una volta il proprio impeto, probabilmente perché i suoi superiori non gli avevano ancora trasmesso i dettagli particolareggiati della missione da svolgere; ha proclamato di voler far riassurgere l’Italia al rango di potenza industriale. Non ha specificato, a dire il vero, se la quota di prodotto sarebbe cresciuta per merito del settore o demerito degli altri; il corso degli eventi, probabilmente, gli perdonerà pietosamente l’esito scontato di tanta imprudenza e farà terminare anzitempo la sua esperienza prima che i fatti smentiscano i suoi annunci o lo spingano definitivamente agli incantesimi più truffaldini.
L’OTTIMISMO DELLA ILLUSIONE
Almeno quattro volte, però, ha già rivelato questa insospettabile propensione: ha minacciato sfracelli per fissare nell’agenda della Comunità Europea il problema della disoccupazione giovanile; ha imposto un contenimento della riduzione dei fonti strutturali e di coesione europei ai danni del paese; ha salutato con entusiasmo l’impegno ai negoziati per un mercato comune UE-USA; si è rallegrato, come il suo predecessore Monti, per la raggiunta sicurezza del futuro industriale di AVIO s.p.a. andato ad affiancare il gioiello di Nuovo Pignone, una volta di ENI, nel forziere dell’americana General Electric; ha rasentato l’euforia nell’annunciare l’accordo con l’Azerbaijan sul T.A.P. (Trans Adriatic Pipeline), uno dei pilastri su cui SNAM vorrebbe fondare i progetti di maggiore autonomia e diversificazione delle forniture energetiche e di snodo centrale della rete europea. Ha stranamente osservato un silenzio guardingo sulla vicenda dell’acquisto dei caccia F35, lasciando al suo mentore, evidentemente dalle spalle ben più larghe non ostante l’età, l’onere di sottolineare imperativamente chi realmente decide, in Italia, la politica estera e di difesa.
Affermazioni, annunci e stati d’animo i quali non fanno che confermare il progressivo declino e la progressiva subordinazione della classe dirigente del nostro paese ammantato della solita retorica europeista e della globalizzazione che riduce l’economia al conflitto atomistico tra singoli attori imprenditoriali.
LA COSTANTE DEL CETO POLITICO
Un processo accentuatosi alla fine degli anni ’80, che sta precipitando e degradando inesorabilmente in questi anni, ma che conserva alcune costanti rivelatrici dello spessore del nostro ceto politico.
Vediamo, quindi, cosa in realtà sottende tanto ardore.
I fondi ottenuti per combattere la disoccupazione giovanile ammontano a poche centinaia di milioni di euro annui per quattro anni. Una cifra poco significativa che, se utilizzata, cosa per altro da verificare, servirà ad alimentare la riforma dei contratti di lavoro con le incentivazioni per le assunzioni sino ai 29 anni di età, la formazione professionale e il ripristino di una maggiore rotazione nei contratti temporanei. In altri tempi sarebbe servita almeno a colmare la discrepanza esistente in alcune zone del paese tra offerta e domanda professionale; al momento, in mancanza di una politica industriale seria, a tirare una coperta troppo corta, quella dell’occupazione, a favore di un segmento, ma a scapito di un altro di disoccupati. Non una parola sulla formazione scolastica e professionale; tanto meno su una riforma pensionistica che preveda l’accesso volontario graduale alla pensione accompagnato da incentivi e strutture che facilitino la trasmissione di competenze alle nuove generazioni.
La politica dei fondi strutturali e di coesione europei meriteranno un articolo a parte. Nell’economia dell’articolo è sufficiente rammentare che oramai anche la letteratura europeista più osservante i precetti comunitari ritiene l’utilizzo dei fondi ininfluenti o addirittura controproducenti in mancanza di “una energica politica industriale nazionale”. In cosa debba consistere questa politica è tutt’altra questione da dirimere. Nel peggiore dei casi, per altro i più ricorrenti, con il mero miglioramento delle infrastrutture non farebbe altro che accentuare la debolezza e la dipendenza delle zone deboli da quelle forti e caricare successivamente i paesi marginali di pesanti oneri di gestione; l’unico vantaggio pressoché certo è il beneficio immediato dell’incremento da domanda temporaneo. La classica politica keynesiana di breve termine vista in Grecia, in Portogallo, in buona parte del Sud-Italia e della Spagna, in tanti altri paesi che ha portato a miracoli economici effimeri. Come se non bastasse, con l’allargamento dell’Unione Europea, l’Italia è diventata contributore attivo del bilancio della Comunità, ha consentito sconti significativi ai contributi di Gran Bretagna e Germania e ha contribuito a finanziare paesi europei nel mirino degli interessi militari americani ed economici soprattutto tedeschi e statunitensi. La disarticolazione dello stato centrale seguita alla istituzione competitiva delle regioni, i rapporti diretti di queste con le strutture amministrative europee, l’eliminazione delle agenzie centrali di gestione degli investimenti (Cassa del Mezzogiorno tra le altre) hanno ulteriormente frammentato gli interventi e reso residuale l’efficacia dell’investimento. Sarebbe sufficiente analizzare il divario del tasso di utilizzo degli investimenti rispetto alla taglia per verificare il livello di degrado e di residualità della politica di utilizzo dei fondi. Il Governo Letta non sta facendo altro che accentuare questa tendenza privilegiando i piccoli interventi, senz’altro più rapidi da attuare ma meno strategici. Interventi, per di più, sostitutivi di una reale politica industriale. Rappresenta, tra l’altro, la ennesima rinuncia implicita ad ogni possibilità di riorganizzazione degli apparati amministrativi dello Stato. La Commissione Europea (CE), con una solerzia alquanto selettiva tra l’altro, si è premurata di sottolineare che vigilerà sul loro utilizzo e che si adopererà affinché non siano violati i sacri principi del libero mercato. La CE soffre notoriamente di strabismo nell’applicazione concreta di questo principio e risulta, quindi, assai difficile individuare un unico criterio di applicazione; una simile struttura amministrativa, avvezza ad una continua trattativa con gruppi di interesse e singoli stati nazionali, è pressoché naturalmente portata ad adeguare il criterio di giustizia alla forza del giudicato o della controparte; l’elemento che la contraddistingue, in queste pratiche così comuni e mondane, è il vanto che ne mena. Il principio, pur tuttavia, è chiaro e mira a garantire l’accesso a quelle politiche e a quelle aree oggetto di investimento a tutti gli operatori interessati; come si concili questa missione con la volontà degli stati, laddove esiste, di creare le condizioni di sviluppo di una propria imprenditoria, di proprie attività di ricerca e di proprie piattaforme industriali adeguate allo sfruttamento è tutto da vedere. La grande maggioranza dei tentativi si risolve alla fine in colonizzazioni che resistono sino al mantenimento di infrastrutture ed incentivi competitivi rispetto ad altre realtà.
LA COERENZA
Il Governo Letta sta proseguendo esattamente sulla stessa falsariga di tutti i governi succedutisi nel dopoguerra, sia quelli con un minimo di aspirazione autonoma, sia quelli totalmente proni ai dettami esterni come l’attuale; poggia sul presupposto dell’indebolimento e della fine degli stati nazionali, sulla creazione di una ibrida entità sovranazionale, sul miraggio sempre più evanescente del governo mondiale, sul mito nemmeno abbozzato, ma solo enunciato, di una identità europea che si riduce regolarmente, in mancanza di argomenti, nel più bieco economicismo.
Un modo per nascondere, dietro nobili principi, la debolezza di un paese con il risultato nel migliore dei casi di successi effimeri tramutatisi rapidamente in sonore batoste e indecorosi rientri nei ranghi per i governi con qualche ambizione e nella supina e diligente obbedienza, priva di qualsiasi reazione negli altri.
Il fallimento della politica italiana filo palestinese e del tentativo di salvaguardare l’integrità della Federazione Jugoslava, le trattative per la definizione dello SME concomitanti al processo di riunificazione tedesca negli anni ’80 rientrano nel primo caso; la partecipazione all’attacco alla Serbia, della quale il leader Maximo D’Alema continua a menar vanto e sul quale continua a poggiare la sua attuale carriera politica fondata sugli stretti legami con i democratici americani e in particolare con la famiglia Clinton, a quello proditorio in Libia del suo rivale politico, la partecipazione alle trattative di ingresso nell’euro una volta che Francia, Germania e Gran Bretagna ne avessero già definito gli elementi essenziali, rientrano nella seconda casistica.
Sarebbe ormai il caso, tra l’altro, di iniziare a fare un primo bilancio concreto sulla perdita di autorevolezza, di credibilità e sui pesantissimi costi economici patiti dal paese per queste scelte.
LA FUNZIONE DELLO STATO
Proprio il processo di Unione Europea, specie quello determinato negli ultimi anni, ha dimostrato che gli stati che hanno salvaguardato meglio la propria sovranità, le proprie strutture e le proprie prerogative hanno saputo approfittare dei vantaggi dell’integrazione sia pure nella posizione subordinata agli Stati Uniti, lo stato più potente, più volte sottolineata.
L’esempio delle politiche regionali e del ruolo delle regioni nel processo di integrazione europea è illuminante.
Tutti i grandi paesi europei, compresi l’Italia e la Germania, hanno subito per impulsi endogeni e potenti sollecitazioni comunitarie forti spinte regionalistiche e autonomistiche. La prima ha subito un processo di disarticolazione tale da mettere in discussione addirittura le scelte di politica estera del paese. Il momento più paradossale conosciuto è forse stato, negli anni ’80, il contrasto tra il Ministro degli esteri De Michelis e il Capo del Governo Andreotti da una parte i quali sostenevano e conducevano in prima persona la mediazione per il mantenimento della Federazione Jugoslava, le regioni del Nord-Est, incoraggiate da Germania e Baviera in maniera surrettizia, dall’altra le quali sostenevano il riconoscimento immediato di Croazia e Slovenia. La seconda, la Germania quindi, ha saputo ricondurre le pressioni e gli interessi localistici nell’ambito dei rapporti tra Governo Centrale e Assemblea dei Laender e mantenere, quindi, una politica estera più unitaria e coerente.
L’illusione europeista è servita a celare i conflitti reali in corso tra gli stati e la subordinazione generale al paese dominante.
La conseguenza è stata la progressiva emarginazione e marginalizzazione del paese nel contesto europeo e il ricorrente riflesso condizionato di rifugiarsi sempre più sotto l’ala protettrice e sempre meno generosa e più predatrice degli Stati Uniti.
L’Italia, infatti, è rimasta quasi sempre tagliata fuori dai pochi timidi tentativi di emancipazione portati avanti; da quello di creazione di un corpo militare a comando europeo, alla neutralità su alcuni interventi militari americani, al consorzio AIRBUS, ai tentativi di integrazione dell’industria strategica militare europea.
Lo stesso sostegno, così infantilmente entusiastico e acritico, alle trattative per l’integrazione del mercato euro-statunitense lascia esterrefatti.
La trattativa che poggerà più che sull’abbattimento dei dazi, già particolarmente ridotti almeno sul versante europeo, piuttosto sull’uniformità delle normative, delle regole di commercio, di produzione di merci e di esercizio di servizi e professioni, parte con un giocatore predominante, gli Stati Uniti, in possesso di una regolamentazione uniforme nel proprio paese e l’altro giocatore in balia di tanti regolamenti quanti sono i paesi aderenti all’Unione Europea. Lascio immaginare quali saranno i reali conduttori di queste trattative e ancor più i reali beneficiari, sempre che si riesca ad arrivare ad una conclusione già altre volte sfumata.
Un indizio lascia presagire comunque l’esito per il nostro paese: l’Italia è stata totalmente esclusa tra le sedi giudiziarie che dovranno definire le controversie sui brevetti in Europa.
La stampa nazionale sta già prefigurando le magnifiche sorti e progressive con la consueta vanagloria le aspettative di successo celebrando i futuri fasti dell’agroalimentare di nicchia italiano sul mercato americano. Una versione appena più sofisticata ma pacifica del piano Morgentaler previsto per la Germania sconfitta degli anni ’40.
La vendita di Avio rappresenta, tra le tante purtroppo, la concretizzazione nefasta e limpida delle conseguenze di queste rappresentazioni illusorie e ingannevoli. Lo spensierato compiacimento con il quale si è ceduto l’intero settore che cura la manutenzione delle turbine, la produzione e manutenzione di motori, compresi quelli di velivoli e navi militari e quant’altro a una azienda americana che potrebbe arrivare, per questa via, addirittura all’accesso ai segreti industriali e militari del progetto concorrente dell’Eurofighter, lascia percepire sino a che punto potrà arrivare l’annichilimento e l’integrazione subordinata delle nostre industrie strategiche e la simpatia che ci manifesteranno i nostri ex-soci europei con qualche dignità in più da salvaguardare.
Decisamente più intricata, ma gravida di conseguenze a lungo termine, è la vicenda del TAP, già accennata; è anche la vicenda su cui Enrico Letta si è lasciato trascinare all’apice dell’euforia, probabilmente anche con una buona dose di ingenuità a rendere ancora più grottesca la posizione del protagonista.
Cinque anni fa, l’Italia, grazie all’ENI, era partita con un accordo paritetico con la Russia, grazie a Gazprom, che prevedeva la costruzione di un gasdotto che dalla Siberia, attraverso Turchia e Balcani, sarebbe penetrato a Sud e a Nord dell’Italia ad innestarsi nella rete europea. L’accordo prevedeva l’ingresso dei russi nella distribuzione al dettaglio del gas in Italia in cambio dello sfruttamento diretto di ENI di alcuni giacimenti di gas e petrolio in Siberia e di una collaborazione nelle attività di estrazione in Africa nonché di una integrazione di quella rete a quella siberiana.
La Commissione Europea, del tutto allineata alla posizione americana, tanto è stata compiacente con l’analogo progetto russo-tedesco Northstream, tanto ha osteggiato il progetto italo-russo. Ha sostenuto il progetto americano concorrente del Nabucco che si fondava soprattutto sul gas iraniano ben lungi dal rientrare nell’orbita di controllo statunitense; ha imposto agli euforici europeisti italici, attualmente al governo, la separazione di SNAM, la società che gestisce la rete di gasdotti italiana, dall’ENI, privando quest’ultima di capacità contrattuale nell’agone mondiale; ha impedito ai russi l’accesso al mercato distributivo italiano proclamando che la separazione di SNAM avrebbe messo tutti gli estrattori di gas mondiali, compresa ENI, in concorrenza tra loro a parità di condizioni e a beneficio dei consumatori.
Conoscendo il tipo di concorrenza che si fanno le sette sorelle, si presagisce quale sarà quella sul gas; il vantaggio più evidente potrebbe essere l’accesso al mercato spot, quello derivato dalle eccedenze di produzione, ma alquanto instabile e problematico nelle forniture e nelle oscillazioni dei prezzi. Nel frattempo la guerra di Libia ha polverizzato i progetti di intervento italo-russi in Africa e l’ENI ha ceduto la maggior parte delle proprie quote di partecipazione di Southstream a Francia e Germania.
A margine, si fa per dire, l’Iran ha sottoscritto un accordo, ancora tutto da costruire ma sintomatico della piega degli eventi, con Iraq e Siria per un gasdotto con terminal in Grecia e diramazione in Nord-Europa attraverso i Balcani. In pratica la morte definitiva di Nabucco.
In questo quadro si inserisce il TAP, costituito interamente da società nord-europee, inizialmente alimentato da gas azero ma con un accordo subito dopo sottoscritto da Azerbaijan e Russia per una fornitura al 50% con gas siberiano, quello che esattamente avrebbe voluto aggirare la CE.
È troppo presto trarre conclusioni definitive, ma a mio parere, l’epilogo più probabile rischia di essere un ridimensionamento drastico del ruolo di SNAM come fulcro europeo, la periferizzazione del mercato energetico italiano e il rischio che ENI, per sopravvivere e eventualmente prosperare, subisca un processo analogo a quello subito dalla FIAT, con la direzione strategica ormai radicata altrove. Vedremo se i colpi inferti da alcuni magistrati ad ENI, con le accuse di corruzione internazionale e alla collegata SAIPEM riusciranno ad imprimere definitivamente questa direzione. Nella testa di Enrico Letta un sacrificio così lieve val bene la possibilità di esportazione nel “continente” azero dei beni di lusso griffati.
In epoca di colpi bassi, di scelte economiche legate alle strategie geopolitiche dei paesi, il nostro continua ad affidarsi eroicamente alle virtù del libero mercato, della mistica europeista, del cosmopolitismo.
LE INQUIETUDINI
Non ostante la pervicacia del suo mentore ultraottuagenario, l’aspirazione alla creazione di schieramenti addomesticati di destra e sinistra non sembra dare risultati soddisfacenti. Su questa transizione invece poggiano le fortune di Enrico Letta. Non ostante la buona volontà di tanti politici e fazioni, lo scontro politico sta invece sempre più degenerando perché riguarda sempre meno due partiti sulla scena politica, ma sempre più uno di questi, il PDL di Berlusconi, e settori nevralgici delle istituzioni. L’esito di questo scontro, a mio parere, è ormai segnato a sfavore di Berlusconi. L’unica sua possibilità è guadagnare ancora un po’ di tempo. La sproporzione di forze e delle capacità operative sono evidenti. Anche la posta in palio di credibilità è asimmetrica. Una sconfitta clamorosa di questi ultimi porterebbe ad una ulteriore grave destabilizzazione degli apparati possibile solo con un forte movimento politico ben radicato nei gangli vitali della società e dei centri decisionali e capace di incidere sugli assetti istituzionali e modificarli. Non è assolutamente il caso di Berlusconi. Una sua vittoria, tanto più se risicata, non farà che rincrudelire la reazione ed acuire la drammaticità dell’esito finale protratto. Una sua sconfitta evidenzierà immediatamente l’insulsaggine del quadro politico superstite; in mancanza di forze alternative potrebbero però diventare il rifugio raccogliticcio e rassegnato di forze appena sufficienti però a proseguire l’attuale percorso. È quanto successo in Grecia, ma la prospettiva è ancora più incerta e aperta a conflitti tra deboli oligarchie poco rappresentative. Al centro c’è ancora Monti che attende di raccogliere i superstiti e disertori; tiene duro in vista di questa prospettiva. Ha dimostrato di emanare ben poco fascino.
Rischia di sparire, invece, Enrico Letta. Probabilmente sarà un bene per lui.
Potrebbe fare la fine onorevole e malinconica di Mago Merlino, consapevole che la fine del potere delle sue illusioni dipende dalla incredulità degli eroi al suo cospetto e dai tempi cambiati, piuttosto che perdersi nelle magie rocambolesche ma ridicole di Maga Magò.