La skyline di Hong Kong vista da Kowloon.
Come è mutevole la natura umana e quanto mugugnona, quella dei sedicenti anziani, poi... Soltanto ieri ad un timido alzar di temperatura rimpiangevo il gelo di nonno inverno di una Russia del passato che rivivo soltanto più nei contatti con i vecchi amici, forse anche loro barricati in qualche falansterio della periferia moscovita, a battere le mani e i piedi tra un 50 grammi di vodka e un filetto di balik, ed ecco che oggi all'ingrugnirsi del cielo e al pizzicorio rinnovato dell'aria sulla mia pelle tenera (ma forse potrebbe essere anche l'arrivo improvvido della bolletta del riscaldamento) subito mi coglie la nostalgia dell'aria calda e soffocante della baia di Hong Kong. Quanti giorni passati ad asciugarti inutilmente la fronte bagnata, la camicia che si appiccica alla pelle in modo fastidioso proprio mentre stai andando ad un incontro importante, dove sai già che la lama dell'aria condizionata ti gelerà il tessuto sulle spalle. Oppure seduto su una panca nei giardini di Kowloon, quando è ancor mattino presto e l'afa è soltanto leggera foschia spessa; tra le piante un gruppo di anziani muove le braccia nella sincronia lenta del Tai Ji; un po' più lontano sul viale una donna che ordina fiori sul selciato in attesa del primo cliente. Nella baia, vecchie giunche arrancano lente, quasi che la pesantezza dell'aria le rallentasse invece di spingerle; gli odori dell'Oriente sono ormai cosa sola con l'ambiente; respiri assieme spezia e il dolciastro odore della materia organica che al sole si corrompe in fretta.
La stessa fretta che leggi nelle gambe della gente, sempre in corsa per non perdere l'ultima occasione, quella che fa di questa città un cuore pulsante del mondo, crogiolo vitale del gigante che sta alle sue spalle, che se la ride delle crisi in cui sa leggere solo le opportunità; che si lamenta poco, ma pensa casomai prima di trovare soluzioni piuttosto che a esporre problemi. Un caldo opprimente solo al momento in cui scendi dall'aereo, anche se adesso col nuovo aeroporto, l'aria della città la respiri solo dopo molto tempo, quando sei finalmente arrivato nelle strade strette di WenChai o a Central, fuori dalla metro e vieni invaso dalle luci e dai colori, smaglianti di giorno, rutilanti e psicotici di notte, quando tutte le insegne si accendono per affascinarti meglio. Sulla balconata di Victoria Pick, non la senti neppure più l'afa opprimente, forse la leggera brezza della cima, forse meglio, lo spettacolo che ti si para davanti, la selva di pinnacoli di questa immensa cattedrale gotica in continuo divenire, più volte data per morta e rinata, con le sue mille guglie, le sue vetrate splendenti, la tenue oscurità della foschia umida che nasconde le isole lontane, i raggi del sole che rimbalzano nello specchio della baia, oro liquido al tramonto, rosa aranciata al mattino. Una grande chiesa zeppa di fedeli del dio denaro, adoranti e immersi nella sua liturgia, senza infingimenti o distrazioni, che per estensione hanno contagiato irrimediabilmente e nelle forme più virulente, i vicini del Guang Dong e poi via via tutto il resto del Regno di Mezzo, una pandemia inarrestabile che supera barriere e confini, di cui tutti però si fanno fieri portatori e untori appassionati e che alla fin fine fa star bene tanti che prima morivano di fame. Caldo unto che avvolge tutto, frenesia umida, sudore anoressante, quanto mi mancate.