Magazine Cultura
Io che non volto le spalle, io che, se posso, conto i morti.
Io che ho divorato i libri sulle battaglie per cielo e per mare, sui maledetti ultimi ponti, sui sergenti nella neve, sui morti che camminavano, prima di diventare fumo nei camini.
Io che quegli anni me li sento ancora addosso e sono perfino facile a commuovermi. Oggi anche di più di quando ero ragazzino, sarà che il tempo biologico aiuta a trattenere ciò che il tempo della storia di solito si lascia scappare.
Non lo sapevo. Non ne sapevo niente.
Mai sentito parlare dell'Oria. Il piroscafo Oria. L'altro giorno, la prima volta che me ne hanno parlato, non ho capito. Ho pensato a un lapsus. Forse ho addirittura sorriso all'ignoranza.
Ah, il Doria. Certo che ne ho sentito parlare. L'Andrea Doria.... la più grande e più veloce nave da passeggeri della flotta italiana. La più moderna e la più sicura: cosa che si diceva anche del Titanic, sarà pure che non porti male. L'Andrea Doria, certo. Successe in quell'anno in cui successe di tutto, il 1956. Quando ancora per trattarsi bene l'oceano si attraversava con le navi, non con gli aerei.
E perché poi piroscafo? Era un transatlantico. Un bel transatlantico.
L'Andrea Doria che affondò davanti alle coste degli Stati Uniti: 46 passeggeri morti, ripeto, 46. Con tutto il rispetto.
Non sapevo dell'Oria, dei suoi 4 mila e più ragazzi morti così, per non avere voluto combattere con Hitler e Mussolini.
Come me, quanti non hanno saputo, quanti non sanno.
Però quando questo nome si è fatto largo tra molti altri, quando mi ha chiesto attenzione, allo stesso modo di un bambino che in classe alza la mano per domandare, non è che ho tirato avanti. Mi sono fermato. Ho cercato la risposta. Le risposte.
Sono sicuro, già la sera stessa che me ne hanno parlato.
A casa ho digitato questo nome – Oria, non Doria – questo nome in fondo facile da ricordare. Un invio sulla tastiera per la ricerca su Google, un doppio click per Wikipedia.
Il peggior disastro navale nella storia del Mediterraneo: così c'era scritto.
Mai tanti morti, nel nostro mare. Mai tanto silenzio.
Un silenzio più ostinato di quello laggiù in fondo al mare. Un silenzio, ecco, che è il vero mistero, in questa storia.
Cosa importa sapere se il comandante ha fatto tutto quello che doveva fare o se quello scoglio poteva essere scansato.
Ma il silenzio, questo silenzio. Questo silenzio che non so se a qualcuno ha fatto comodo – temo di sì – questo silenzio che certo è una nostra vergogna.
Il peggior disastro navale nella storia del Mediterraneo e questo è quanto.
Un relitto in fondo al mare. I pesci che guizzano, le alghe che assecondano il gioco delle correnti.
E quella gavetta sul fondale, quella gavetta che resiste alla salsedine, alle incrostazioni, al tempo.
(Da Paolo Ciampi, La gavetta in fondo al mare, Romano editore)
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