Urticante, animalesco, così si presenta The Third Season, seconda prova lunga solista di Paolo Cantù dopo Silo Thinking: l’apertura di “The Book Of The Year” ripesca chitarre arcigne che sanno di rancidi Arab On Radar, e si torna ai Novanta, quelli di un mai sopito orgoglio noise, anche tutto italiano, perché no? Si tratta di un mondo che Paolo ha frequentato sempre da battitore libero, prima coi leggendari Tasaday, e poi in combutta con A Short Apnea, Six Minute War Madness e Uncode Duello. La mattanza rumorosa provocata dalla sua sei corde condiziona l’intero disco, va detto, basta solo che abbiate il coraggio di porre le orecchie su queste basi che sanno di electro-rock deviato, “I Dreamed I Saw Mark P. Last Night”, o sulle diaboliche tentazioni “pop” della storta e cantautorale “Avevo Cose Da Dire” (alla voce l’isterica performance di Federico Ciappini dei Six Minute War Madness), che si perde in grosse pozzanghere di feedback. Sul secondo lato spiccano la marcia elettrica di “Do Not Let The Olive Branch Fall From My Hands”, ma soprattutto la potenza esecutiva della finale “Cerambice”, un blues slabbrato e affascinante, il grado zero della sua musica forse, come Captain Beefheart con le convulsioni, il che è tutto dire, no? Grazie a questo brano risalgono parecchio le quotazioni di un album comunque intrinsecamente onesto, per quanto contenente sonorità piuttosto debitrici di un suono legato a “quel” periodo, mettendo addosso una bella sensazione di “sporco musicale” che non si lava più. Un esempio di coerenza come pochi ce ne sono in giro.
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