Magazine Diario personale

“Mala tempora currunt” by Sandro Amici

Da Parolesemplici

indexNon pensavo mai di arrivare a sperimentare questa bassezza, questo avvilimento. Mi guardo attorno e vedo persone intente al lavoro di ogni giorno; persone che scherzano, che si guardano, che si scambiano pareri sul pallone, sulla partita di ieri, sull’ennesimo tacco di Totti (o Tocco di Tatti, o Titto di Catto)… e su di noi si sta abbattendo la furia di una bufera senza precedenti! Toccherà anche a noi, che credevamo di essere scevri da questo tipo di disgrazie, entrare nel novero di quelli che rischiano di perdere il lavoro. Non ci abbiamo mai pensato; fingevamo che non fosse possibile, che fossimo l’unico baluardo di giustizia ed equità sulla faccia della Terra. Ma non è così: l’infamia, la disgrazia si sta abbattendo anche su di noi, condita da mille parole di circostanza, da mille giustificazioni, da decine di grafici che dicono che questo sacrificio s’ha da fare. E pure in questo sfascio, ognuno di noi in cuor suo spera che non gli tocchi; che l’amaro calice non gli venga porto davanti alle labbra. Triste Getsemani del ventunesimo secolo! Ci contiamo gli uni con gli altri, ci facciamo coraggio quando vediamo pararsi davanti a noi la faccia di un sessantenne. Toccherà certamente prima a lui, ci diciamo. In mezzo a questa selva di giovincelli, di contratti a tempo determinato, che durano un anno, sei mesi, un par di settimane noi dobbiamo sentirci in colpa perché siamo quelli che tra pochi godono di uno stipendio decente, venuto da venticinque anni di lavoro, da giornate finite alle 7 di sera o iniziate alle 7 del mattino.
Quelli che sentono su di sé il fiato della fine si dicono pronti a combattere con il coltello tra i denti. Ma bisognava farlo prima: bisognava farlo da sempre. Noi siamo deboli perché l’abitudine vince sempre su tutto. Dovevamo essere sul piede di guerra già dal primo giorno di leva! Ma siamo persone pacifiche e soprattutto, ci fidavamo degli altri. Quegli altri che adesso, con la faccia bianca e triste (cosparsa di cipria, allenata a far finta di piangere come in una specie di teatro “NO”) ci mostrano le frecce colorate e ci dicono che si, questo sacrificio non ce lo possiamo evitare.
Siamo quelli che fino a qualche mese fa guardavano al collega come ad un semplice compagno di lavoro e che ora lo sogguatano come un nemico da evitare e del quale temere. Si cominciano a fare conti assurdi: la nostra testa è un vulcano in continua eruzione che di giorno frulla e frulla e di notte costruisce castelli astrusi nelle poche ore di sonno che la tensione ci concede.
Per quanto mi guardi intorno, non trovo alcuna via di scampo. Scavo e riscavo tra le cose che potrei fare e non ne trovo nemmeno una di commercialmente valida. La tristezza sale. Leggo di uomini che a cinquant’anni si sono rifatti una vita ricominciando tutto daccapo. Ma io non sono un pioniere, non ho mai voluto niente altro al di fuori di questo. Mi bastava; vivevo bene. Ci sono alcuni che nella discontinuità si trovano come piranha nello stagno. Io sono una placida tinca che nuoticchia vicino al fondo: non voglio rotture di palle, non le cerco e non le provoco. Eppure dovrò fare i conti con una rivoluzione; dovrò barricarmi e rispondere al fuoco. Dovrò cercare di mantenere la freddezza; di farlo per me e per quelli che amo. E la Guerra comunque non è mai finita.


Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog