Malala è l’attivista sedicenne pakistana fautrice della campagna universale per il diritto all’istruzione. All’età di undici anni comincia a scrivere su un blog della BBC denunciando la vita in Pakistan sotto il regime talebano. Il 12 ottobre 2012 viene sparata alla testa dai talebani. Ora vive in Inghilterra con la sua famiglia e gode di numerosi premi e fama mondiale. Malala è diventata un caso di coscienza.
La piccola eroina Malala Yousafzai nasce nella valle dello Swat, un’affasciante regione a confine tra Pakistan e Afghanistan, terra di pasthun e antiche leggende indiane e buddiste prima ancora che musulmane. Malala è l’omonimo di un’altra baby eroina, Malalai di Maiwand, nome che per i pashtun (antica tribù afgano-pakistana e seconda etnia del Pakistan) evoca l’epico coraggio che cambiò le sorti della seconda battaglia anglo-afgana. Nonostante gli stereotipi di cui è schiavo – immagini di terroristi suicidi, faide tribali, fanatici religiosi, mujahidin, donne col burqa- il Pakistan è uno Stato che abbraccia una storia antica e una società complessa. Per molti anni, il confine tra Pakistan e Afghanistan dove si innalza la valle dello Swat, è stato centro di resistenza non violenta gandhiana contro il dominio britannico. La regione rappresenta l’anfiteatro di antiche tradizioni mistiche, musica sufi e un’affermata società matriarcale. Il Pakistan di Malala però è diverso. Negli anni in cui scrive sul blog della BBC per denunciare gli abusi di potere e il tumore in metastasi del regime pakistano, la situazione è già precipitata. Siamo nel 2009, anno in cui il primo afro-americano viene eletto alla guida degli Stati Uniti d’America. “Yes we can” é il suo motto. In effetti c’è molto da poter fare, in un mondo che ha già assaggiato i sanguinosi bocconi di ben otto anni di “war on terror”. “Operation enduring freedom” era la pomposa etichetta che l’allora presidente George W. Bush aveva incollato alla guerra in Afghanistan nel 2001. Operazione cieca in una terra patriarcale, dove le maestose montagne in cui si nascondono i talebani fanno ombra ad antiche tradizioni ed orgogli tribali. Se l’Afghanistan è il nemico da combattere, la terra dei suicidi e dei fondamentalisti che si fanno esplodere recitando le sure del Corano, il Pakistan di Malala è le terra dei corrotti. I talebani sono un mostro creato da CIA e ISI (servizi segreti pakistani) in un clima di macchinosa guerra fredda. Dopo l’invasione sovietica dell’Afghanistan nel 1979 gli americani hanno sostenuto generosamente con armi e munizioni la grande Jihad (guerra santa) combattuta dai mujahidin. Lo stesso erede miliardario saudita Osama Bin Laden è stato un prodotto made in USA.
“I talebani non sono una forza organizzata come ce la immaginiamo. Rappresentano una mentalità, e questa mentalità è un po’ dappertutto in Pakistan. Chiunque sia contro l’America, contro l’establishment pakistano, contro la legge inglese, è stato infettato dai talebani “
(questo si legge nel libro “Io sono Malala”, ottobre 2013, edizioni Garzanti). Mentre il governo pakistano fa spallucce intascandosi milioni di dollari di guerra al terrorismo per scovare al-Qaeda senza muovere un dito, la talebanizzazione si brutalizza: scuole elementari esplodono, donne vengono martoriate e uccise per le strade colpevoli di aver commesso “haram” (qualcosa di proibito dall’Islam). In questo clima emerge la personalità di Malala, figlia di un insegnante che a sua volta aveva combattuto per il diritto all’educazione delle bambine, costruendo una scuola elementare.
Fortunatamente per il mondo, non vi è carenza di persone valorose o coraggiosi individui che mettano in pericolo la loro stessa vita in nome di una battaglia collettiva. Vi è abbondanza di queste personalità soprattutto nei paesi poveri ed autoritari. Il caso di Malala è raro solo perché se ne parla. La maggior parte delle tante Malala vivono e lottano senza nome e non sono salite sul podio della notorietà mediatica. Idolatrare è comodo poiché si scaricano responsabilità dal nostro groppone e si carica di aspettative quello del dio. La dura verità è che la violenza di genere in India, la guerra civile in Siria o la discriminazione delle donne in Pakistan non sono camera-ready e non si barattano con una casa in Inghilterra e un abbraccio della regina Elisabetta. Il mondo non è così semplice come abbiamo disperato bisogno che sia. Non vi è dubbio che una stupefacente giovane donna come Malala possa apportare un cambiamento consistente in Pakistan ma quello che stiamo cercando di fare di lei è qualcosa di molto diverso: si tratta di redimere noi stessi dalle nostre colpe. Incollare una faccia giovane e sorridente che “ce l’ha fatta” su una situazione infelice e drammatica come quella dell’odierno Pakistan ci permette di far finta di aver chiuso la questione. Si tratta di dimenticare che il demone talebano sia stato creato dalla stessa CIA che ha organizzato la islamo-follia in Medio-Oriente per annientarlo. Si tratta di sorvolare su gravi violazioni internazionali dei diritti umani, come quella che ogni giorno il governo statunitense perpetra lanciando droni in Pakistan, Yemen e Afghanistan su terroristi e civili. Si tratta di chiudere occhi, orecchie e bocca sull’orrore di una guerra giocata ai videogiochi e al tiro al bersaglio. Una guerra senza pilota e disumanizzante come i suoi aerei. Si tratta di continuare a sperare nella coscienza di nerd idealisti (vedi Snowden o Assange) per scoprire quante telecamere ci sono nelle nostre camere da letto.
Si tratta di idolatrare la Malala di turno, nata nel posto sbagliato al momento giusto e farne un’eroina, una paladina dei diritti delle bambine. Per sentirci meno rei, meno complici, meno coinvolti, ma soprattutto per lavarci la coscienza con la candeggina.