Il paese africano del Mali è improvvisamente assurto all’onore delle cronache quando, l’11 gennaio scorso, la Francia ha deciso di lanciarvi una campagna militare a sostegno del governo di Bamako contro i ribelli islamisti del Nord. Parigi ha incassato il sostegno morale dei quattordici membri del Consiglio di Sicurezza dell’ONU e ora sta raccogliendo anche quello pratico d’alcuni Stati africani e della NATO. Il ministro degli Esteri Giulio Terzi di Sant’Agata e quello della Difesa ammiraglio Giampaolo di Paola hanno annunciato che pure l’Italia darà il suo contributo, per ora sotto forma di «sostegno logistico» alle operazioni francesi.
Gli eventi del Mali riguardano dunque sempre più da vicino anche il nostro paese, e non sarà futile esercizio discuterne e cercare di comprendere il contesto in cui s’inserisce l’intervento francese. Nel farlo, cominceremo dal tratteggiare un ritratto complessivo del paese africano, osservandone la storia, la geografia, l’etnografia e l’economia.
Mali: profilo storico-geografico
Mali: profilo etnico-politico
Com’è facile immaginare, in un paese dai confini tanto arbitrari, con ambienti così opposti, in una regione in cui storicamente ai legami clanici e tribali non si sono sostituite salde ed ampie identità nazionali, convivono una pluralità di etnie disomogenee. Dei circa 14,5 milioni d’abitanti del Mali (meno d’un quarto della popolazione italiana) più del 90% si trova nella parte meridionale del paese. La sola capitale, Bamako, ospita ormai quasi due milioni di persone ed è considerata la città africana in più rapida crescita, grazie
anche ad una media d’oltre 6 figli per donna in Mali, dove quasi metà della popolazione ha meno di 15 anni.Il 90% dei maliani appartiene a etnie subsahariane, il gruppo principale delle quali è quella delle lingue mandè, diffuse in tutta l’Africa Occidentale. Appartengono a tale gruppo i già citati Mandinka, che danno il nome al paese, ma soprattutto i Bambara, un’etnia sorta dai Mandinka nel Settecento e che oggi costituisce quella predominante in Mali. I Bambara sono infatti il 36,5% della popolazione, ma la loro lingua è parlato da circa 8 maliani su 10. A un’etnia mandè appartiene grosso modo la metà della popolazione maliana. Poco meno d’un quinto degli abitanti del paese è invece d’etnia fulani: anch’essi distribuiti in tutta l’Africa Occidentale, furono i primi a convertirsi all’Islam e crearono il potente Califfato di Sokoto nell’odierna Nigeria. Una delle caratteristiche della cultura mandè è il sistema castale: tradizionalmente le varie etnie si sono divise le attività economiche, per cui troviamo i Bambara agricoltori, i Fulani pastori e i Bozo pescatori.
Il 10% della popolazione è però rappresentato da due etnie di nomadi settentrionali non subsahariani ma berberi: Tuareg e Mori. I Tuareg, che nel complesso assommano a circa 1,2 milioni di persone, vivono nel Sahara muovendosi tra vari paesi: si stima comunque che oltre un terzo di loro si trovi in Mali. I Mori non sono meno famosi: già noti ai Romani come Mauri, furono i conquistatori della Sicilia e della Spagna. Oggi vivono nella Mauritania, che da loro prende il nome, ma anche in vari altri paesi tra cui il Mali e il Niger, dove sono noti come Azawagh, dalla regione desertica in cui risiedono. Ovviamente l’attività economica tradizionale di questi berberi nomadi è la pastorizia.In un quadro così polarizzato, con un Sud più piccolo ma anche più fertile e popoloso abitato da agricoltori subsahariani e un Nord più vasto ma desertico e poco popolato battuto da nomadi berberi, uno dei pochi elementi uniformanti è rappresentato dalla religione. Il 90% dei maliani è infatti musulmano, sebbene sopravvivano nelle varie etnie residui animistici e dei culti gentili. L’Islam maliano si è tradizionalmente contraddistinto per la sua moderazione, e la convivenza con gli altri culti non è mai stata problematica: solo negli ultimi anni si sono diffuse correnti più radicali nel Settentrione del paese. È presente anche una piccola ma non trascurabile presenza cristiana in Mali, visto che secondo le stime assommerebbe fino al 5% della popolazione.
Come quasi tutti gli Stati “artificiali” e multietnici dell’Africa post-coloniale, anche il Mali dopo l’indipendenza ha faticato a trovare stabilità politica e sviluppo economico. Il Mali è uno dei peggiori paesi al mondo per Indice di Sviluppo Umano (HDI), è tra i cinquanta paesi col più basso PIL anche a parità di potere d’acquisto, gli aiuti esteri contano per il 16% del suo prodotto interno lordo, quasi la metà della popolazione vive sotto la soglia di povertà nazionale.
Dopo l’indipendenza nel 1960, il Mali (che per pochi mesi fu anche federato col Senegal) fu fino al 1968 governato in regime di partito unico (la Union Soudanaise) dal socialista e panafricanista Modibo Keīta, di etnia mandinka. Il 19 novembre 1968, chiamando in causa soprattutto le difficoltà economiche del paese, una giunta militare arrestò Keīta, che sarebbe morto in prigionia nove anni più tardi. Capo di fatto del paese divenne il presidente del Comitato Militare putschista, il tenente Moussa Traoré d’etnia bambara ed educazione francese. Traoré modificò la politica socialista del predecessore ma non la linea autoritaria, che anzi andò accentuandosi. Solo nel 1979, dopo il varo d’una nuova costituzione, il suo potere fu legittimato tramite un’elezione alla Presidenza, che lo vide però unico candidato. Unico fu anche il partito legale, la Union Démocratique du Peuple Malien istituita lo stesso anno. Il misto di repressione dittatoriale, corruzione cleptocratica e austerità finanziaria imposta dagli accordi stretti col Fondo Monetario Internazionale acuirono il malcontento, che all’inizio degli anni ’90 sfociò infine in manifestazioni di piazza. Il 26 marzo 1991 un nuovo golpe destituì Traoré; imprigionato e due volte condannato a morte, l’ex dittatore vive oggi in libertà, in virtù della grazia concessagli nel 2002 dal presidente Konaré.
Alpha Oumar Konaré, storico bambara-fulani, era stato ministro della cultura di Traoré per un biennio, ma faceva comunque parte dell’opposizione marxista-leninista, cui era approdato dopo la giovanile esperienza nella Union Soudanaise di Keīta. Proprio il primo presidente maliano fu riabilitato dopo la caduta di Traoré, ed oggi gli è dedicato anche lo stadio della capitale Bamako. L’elezione alla presidenza avvenne nel 1992, dopo una transizione guidata dal colonnello fulani Amadou Toumani Touré, il capo della guardia presidenziale che, rivoltatosi contro Traoré, l’aveva deposto. Konaré, rappresentante di una nuova Alliance pour la Démocratie en Mali (ADEMA; membro dell’Internazionale Socialista), mantenne la presidenza per i due mandati concessi dalla Costituzione, fino dunque al 2002 – anche se la rielezione nel 1997 fu offuscata dal boicottaggio dei principali partiti d’opposizione dopo l’annullamento di una precedente consultazione legislativa. Nel 2002 le elezioni presidenziali furono vinte da un candidato indipendente, l’ex colonnello ed allora generale Touré, l’uomo che aveva deposto il dittatore Traoré. Touré governò avvalendosi di uomini di varia estrazione partitica, tanto che per la sua rielezione riuscì ad ottenere anche l’appoggio della ADEMA. Il termine legale dei due mandati avrebbe posto naturalmente fine alla presidenza di Touré nel 2012.
La rivolta del Nord
Dall’indipendenza a oggi, la politica maliana è stata dunque appannaggio degli esponenti dei gruppi etnici subsahariani del Sud del paese. Ma la parte settentrionale ha trovato il modo di far sentire la propria voce, soprattutto dalla fine degli anni ’80. In quel periodo cominciarono infatti a rientrare nel paese un gran numero di Tuareg che, a seguito della grave siccità che aveva colpito il Mali negli anni ’70, erano emigrati in Algeria e Libia. Ciò aveva creato tensioni inter-etniche nel Nord del paese, cui l’allora presidente Traoré aveva risposto con la proclamazione dello stato di emergenza e una dura repressione dei Tuareg, sostenuti
dalla Libia di al-Qaddāfī. La politica d’apertura di Konaré, con la creazione della regione di Kidal nell’estremità nord-orientale del Mali e iniziative d’integrazione sociale dei Tuareg, portò solo a una breve tregua. Nel 1994 i Tuareg attaccarono Gao e cominciarono a scontrarsi sia con l’esercito maliano, sia con milizie istituite dai Songhai, subsahariani che vivono nel Nord del paese. Nel 1996 fu raggiunto un accordo di pace, che prevedeva maggiori trasferimenti di denaro dal governo centrale alle regioni tuareg, Kidal in particolare, e la possibilità per i Tuareg di accedere alle cariche e funzioni civili a Bamako.Questa nuova tregua è durata una decina d’anni, dopo i quali gruppi tuareg, scontenti dall’applicazione dell’accordo giudicata insoddisfacente, hanno ripreso le armi. La situazione è degenerata fino a trasformarsi in una nuova aperta rivolta nel 2012. Ciò è stato posto in relazione anche con gli eventi nella vicina Libia. Si ritiene infatti che numerosi tuareg abbiano partecipato alla guerra civile dalla parte di al-Qaddāfī: dopo la sconfitta di quest’ultimo sono rientrati in Mali, ma con in dote nuove esperienze belliche e nuovi armamenti. Le stime variano tra gli 800 e 4000 veterani rientrati dalla Libia. A condurre la lotta è il Tankra n Tumast ḍ Aslalu n Azawd, ossia il Movimento Nazionale di Liberazione del Azawad (MNLA). Azawad è il nome che i Tuareg danno alla metà settentrionale del Mali, ossia il “bulbo” superiore di quella che abbiamo descritto come la “clessidra” che raffigura il paese. Per quanto una creatura dell’indipendentismo tuareg, il MNLA rivendica di rappresentare anche i Mori, i Fulani e tutte le altre etnie che vivono nel Mali Settentrionale.
Tra gennaio e marzo 2012, il MNLA ha rapidamente preso il controllo di gran parte del settentrione del Mali. L’Esercito maliano, ripetutamente sconfitto, ha scaricato la colpa sul governo, biasimato per aver fornito armi ed equipaggiamenti in maniera insufficiente. Il 22 marzo una rivolta militare, scoppiata in maniera apparentemente spontanea a partire dalla vicina base di Kati, ha portato alla presa di Bamako e alla proclamazione d’un governo di transizione guidato dal capitano Amadou Sanogo. Il golpe ha però incontrato una forte ostilità sia all’interno del Mali, con la condanna anche da parte dei partiti d’opposizione, sia a livello internazionale. Il disordine creatosi nel paese ha portato inoltre alla caduta delle tre maggiori città settentrionali, ch’erano ancora in mano ai governativi: Goa, Kidal e Timbuctù. Dopo tali conquiste, il MNLA ha proclamato l’indipendenza dell’Azawad. I militari ribelli, vista la situazione, hanno preferito scendere a patti ed accettare una mediazione della ECOWAS, l’organizzazione di cooperazione degli Stati dell’Africa Occidentale, in virtù della quale Touré è stato sostituito da un presidente ad interim (Dioncounda Traoré della ADEMA) e i golpisti hanno ricevuto l’immunità. La situazione politica a Bamako è comunque ben lontana dall’essersi stabilizzata: il 10 dicembre scorso Cheick Modibo Diarra, capo del governo provvisorio d’unità nazionale, è stato arrestato da militari vicini al capitano Sanogo e costretto alle dimissioni. Pare che la pietra del contendere fosse l’accettazione, da parte di Diarra, d’un intervento diretto di truppe straniere dell’ECOWAS nel Nord del paese, mentre i militari maliani vorrebbero un semplice appoggio finanziario e logistico. Il ruolo di primo ministro è attualmente detenuto da Django Sissoko, funzionario di lungo corso che ha servito sia sotto la dittatura sia nei successivi governi civili, e che ha lavorato anche per il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale.
Gl’islamisti
A rendere ancor più complesso il quadro della situazione è stata l’apparizione di movimenti islamisti radicali nel Nord del paese, presto divenuti protagonisti di rilievo nella guerra civile in corso. Il gruppo principale è quello diʾAnṣār ad-Dīn. Anch’esso è di matrice prevalentemente tuareg: il suo capo, Iyad Ag Ghaly, è stato uno dei leader delle ribellioni dagli anni ’80 ad oggi, ma ha aderito al radicalismo di matrice deobandi durante la sua permanenza in Arabia Saudita in qualità di diplomatico (ruolo che aveva ottenuto dopo gli accordi di pace). Scopo di Anṣār ad-Dīn sarebbe mutare il carattere laico dello Stato maliano e imporre una stretta osservanza della sharīʿa. Il gruppo islamista, la cui consistenza numerica pare comunque più ridotta rispetto al MNLA, ha inizialmente combattuto al suo fianco, ma nel corso del 2012, dopo la conquista di gran parte dell’Azawad, hanno cominciato a sorgere dei dissidi, anche a causa della distruzione di mausolei sufi da parte degli islamisti, che li considerano esempi d’idolatria. Le due formazioni hanno quindi cominciato a combattersi dal giugno 2012, e ʾAnṣār ad-Dīn ha da allora preso il controllo di tutti i principali centri urbani del Mali Settentrionale. Il MNLA, che controlla ora solo aree rurali e desertiche dell’Azawad, sta riapprocciandosi al governo di Bamako, plausibilmente sulla base della concessione di un’ampia autonomia, per affrontare la comune minaccia islamista.
L’intervento francese
Questo è dunque il contesto locale in cui s’inserisce l’intervento francese, preparato da Parigi sul piano diplomatico tramite l’emanazione delle due risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, 2071 e 2085 (rispettivamente 12 ottobre e 20 dicembre 2012), che prevedono il dispiegamento d’una missione militare africana di supporto all’Esercito del Mali. Ma dopo la presa della città di Konna, sulla riva destra del Niger, da parte degl’islamisti il 10 gennaio scorso, i Francesi hanno deciso di passare all’azione in prima
persona, pare per il timore di perdere l’importante aeroporto militare di Sévaré. L’11 gennaio è stata dunque lanciata la Opération Serval, una campagna d’attacchi aerei contro le postazioni degl’islamisti cui segue l’impiego di truppe terrestri.Ufficialmente, l’intervento francese è motivato dalla volontà di tutelare l’integrità territoriale del Mali e combattere il terrorismo. Il presidente francese François Hollande, nella sua conferenza stampa di oggi, ha fatto un punto d’orgoglio del fatto che Parigi stia agendo in maniera del tutto disinteressata. Sono però millenni che le guerre si combattono, si dice, per una giusta causa, e la giusta causa più gettonata negli ultimi decenni è quella della liberazione e protezione dei paesi interessati. Appare più credibile ipotizzare che l’intervento della Francia s’inserisca nel quadro dell’attivismo che la NATO, e al suo interno in particolare Washington, Parigi e Londra, stanno dimostrando in Africa negli ultimi anni, ossia da quando è divenuta chiara e palese la penetrazione economica e diplomatica della Cina nel continente nero, tradizionalmente nella sfera d’influenza occidentale. Nel 2007 gli USA hanno per la prima volta istituito un apposito comando militare per l’Africa, l’AFRICOM. Questo comando ha gestito sia la campagna di bombardamenti di droni ancora in corso in Somalia, sia l’Operazione Odissey Dawn culminata nel rovesciamento di al-Qaddāfī in Libia, in cui Francesi e Britannici hanno avuto un ruolo di rilievo. Recentemente gli USA hanno aumentato il loro coinvolgimento militare anche in Uganda (vedi Oltre «Kony 2012». Cosa succede davvero in Uganda). Le pressioni occidentali sono state inoltre decisive per permettere, nel 2011, la secessione del Sud Sudan dal Sudan. Proprio la Francia nel 2011 è intervenuta militarmente per deporre il contestato presidente della Costa d’Avorio. A tale proposito non va dimenticato che il Mali è il terzo maggiore produttore africano di oro, e nel suo territorio si trovano anche vari minerali tra cui l’uranio. Miniere d’uranio sfruttate dalla francese Areva si trovano nel vicino Niger. Recentemente si è ipotizzata la presenza di petrolio e gas naturale nella parte settentrionale del Mali.
L’esigenza per i Francesi, il governo del Mali e i paesi dell’ECOWAS che stanno inviando un proprio contingente militare, è di completare le operazioni prima dell’inizio della stagione delle piogge in primavera. Malgrado numericamente contenuti, gl’islamisti hanno dimostrato, rovesciando il controllo del MNLA sulle città e ora resistendo a Konna malgrado gli attacchi francesi, di essere un avversario militarmente ostico. Le dimensioni del paese, le vaste aree desertiche, i confini porosi, sono tutti elementi che agevolano le tattiche di guerriglia adottate da ʾAnṣār ad-Dīn. Le poche migliaia di soldati che il Mali e l’ECOWAS possono mettere assieme sono insufficienti per controllare tutto il paese, e soprattuto i suoi confini eccezionalmente estesi (molto delicati quelli col Niger, dove esiste una radicata – e ben armata – comunità tuareg). L’Unione Europea per ora garantisce solo qualche centinaio d’istruttori, e gli USA difficilmente impiegheranno truppe sul terreno. I Francesi potrebbero dunque essere costretti a un impegno molto oneroso, senz’altro al di là di ciò che auspicano. Il modello che presumibilmente vuole seguire Parigi è quello della Somalia, un altro «Stato fallito» caduto in mano agl’islamisti, ma in cui gli USA, armando forze locali e convincendo i paesi vicini a inviare proprie truppe, supportate coi loro droni, sono riusciti a raccogliere buoni risultati. Per tale ragione, sarà presumibilmente decisivo l’atteggiamento che i Tuareg manterranno, vista la loro capacità di controllo sulle aree desertiche. Il MNLA si è schierato coi Francesi: bisognerà verificare se tale scelta sia rappresentativa o meno della popolazione tuareg. Soprattutto perché, come Afghanistan e Iraq dimostrano, la superiorità militare permette di vincere rapidamente le guerre, ma per vincere la successiva pace serve una politica lungimirante sul terreno.