Malika è dello Sri Lanka e mi aiuta nelle pulizie domestiche. Arriva la mattina, trafelata. In inverno coperta fino agli occhi. Contrariamente alle sue medie nazionali, è un donnone che non finisce mai, bella e stanca. Lei ride sempre ma i suoi occhi no. La incrocio alle 8 del mattino, varca la soglia e io sono lì che preparo le ultime cose prima di eiettarmi fuori da casa per accompagnare la mia bambina a scuola e per fiondarmi in ufficio. Io lo so che lei avrebbe voglia di parlare, di raccontarmi le sue cose, ma il tempo è tiranno e il suo italiano maldestro di certo non agevola la conversazione. Si prende cura delle mie cose, alcune volte con impennate strane. Sì, perché Malika nella sua testa è un’arredatrice mancata. Per cui se pensa che il vaso che ho messo sul davanzale della finestra non sia abbastanza valorizzato, lei lo prende e me lo schiaffa in cucina, sopra la credenza che per rientrarne in possesso devo sfidare, masticando improperi irripetibili, la dannata legge di gravità. Ogni tanto, quando capisce che la sottoscritta ha un nanosecondo a disposizione, tira fuori dalla borsa un mucchietto gualcito di fotografie. Orgogliosa e con gli occhi che le brillano, mi mostra i suoi figli sparsi per il mondo. Malika ha anche un marito, ma di lui parla raramente. Da dodici anni vive nella mia città e, solo da qualche mese, è riuscita ad andare a vivere in una casa tutta sua, da sola. Ma, da qualche tempo, ha gli occhi più tristi del solito. Un giorno, quasi placcandomi perché non poteva più tacere, mi ha detto che si sente sola, che ha paura. Vivere per conto suo non è stata una grande idea, il peso della solitudine le è rotolato addosso e lei non sa come gestirlo. Per qualche giorno, mi ha raccontato, è stata costretta all’immobilità: atterrata da un insopportabile mal di schiena e da una febbre cavallina. Abbandonata a se stessa. Nessuno degli amici della comunità è andato a trovarla per prendersi cura di lei. Lo racconta con un’amarezza che mai avevo colto nelle sue parole. E poi, tutto d’un fiato, mi confessa che a giugno vuole tornare nel suo paese, a casa. Non vuole morire in un posto dove ha vissuto solo per lavorare, in un posto dove se sparisce dalla circolazione nessuno si preoccupa di cercarla. Nella sua terra, mi racconta, ha una casa bellissima, a due piani. Ci vivrà da sola, ma almeno sa che la sua famiglia la sosterrà e le starà vicino. Rinunciare a Malika non sarà facile e non lo dico sol perché sa fare bene il suo lavoro, ma perché, malgrado il poco tempo che riesco a dedicarle per fare conversazione, la considero una di famiglia. Una persona che non perde mai occasione per stupirmi con la sua voglia di vivere e con la sua onestà. L’altra sera rientro a casa e trovo dei soldi sul tavolo. Ma da dove arrivano?, mi chiedo. Chiamo Malika, magari li ha dimenticati lei. Ci sono stata un quarto d’ora per capire cosa tentava di dirmi, ma alla fine mettendo insieme gli infiniti, dividendo i participi e moltiplicando gli aggettivi, sono riuscita a svelare l’arcano. Li avevo dimenticati io nella tasca del cappotto. Lei li ha trovati e li ha posati sul tavolo. Voi direte, e che c’entra? C’entra, perché io quei soldi proprio non li ricordavo e lei non ha pensato minimamente di approfittarne. Non lo ha fatto mai la mia Malika, non ha mai approfittato di nulla…mi mancherà…