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Mamma, la realtà è un’altra.

Da Andrea Venturotti

Il locale era avvolto da una nebbiolina derivante dal tabacco bruciato dal poco raccomandabile uomo seduto pesantemente sullo sgabello traballante della slot machine. Entrammo, io e un amico conosciuto da poco. Era mattina, ma sembrava sera per via delle nuvole nere che si accingevano a scaricare contro la nostra Parigi tutta la loro potenza acquatica. Fuori faceva freddo e per passare la mattinata, dopo aver lasciato qualche curriculum in giro per gli studi commerciali , ci parve una buona idea sdrammatizzare la nostra situazione con una partita a biliardo nel caffè più famoso della Citè. Caffè appunto. Ne ordinammo subito due tazze per scaldarci l’anima mentre lanciavamo occhiatacce al tizio delle slot che, bevendo la terza birra alle dieci di mattina, si sforzava di arrivare al fondo della tasca per racimolare le ultime due livre pensando se sarebbero state ben investite in una quarta bella bionda (o rossa) oppure in una rincorsa al tintinnio di altre centinaia di monete che avrebbe potuto vincere cercando l’ultimo trionfale giro alla slot.

Mamma, la realtà è un’altra.

Ci dirigemmo nella sala biliardo, accendemmo le tre luci sul tavolo e mentre il mio amico levigava la sua stecca preferita con il gesso presi il triangolo e posizionai le palle per giocare a 8 pool. La mitica 8 al centro, le altre co-protagoniste tutte intorno pronte per essere imbucate una ad una. Mi appoggiai alla stecca per sostenere i miei pensieri, lasciando a lui l’onore del primo tiro per spaccare il plateau. La 12 viola, la 15 bordeaux e la 10 blu andarono in buca a suo favore alla fine del primo turno. Toccava a me, ma restai immobile, sempre e comunque avvolto dai pensieri. Mi chiese cosa avessi e se fossi così crucciato per il lavoro che tardava ad arrivare. Gli risposi “Ni”. Nel mentre mi mossi per appoggiarmi al tavolo e tirare dentro le prime palle… la 6 verde e la 3 rossa… presi un respiro profondo e sospirando, cominciai a raccontargli cosa mi disse mia madre giorni prima:

“Si vede che ci stai bene a casa. Non fai mai niente. “

Gli spiegai allora dei miei pensieri alla fine di quella frase. Non sto nemmeno a dire il palese: Non le risposi… Più per cordialità che per altro…

Quello che mi fa ridere, gli dissi, è che IO sono quello che non fa mai niente, ma, come per magia, quando in casa succede qualcosa, dalla tavoletta alzata, al piatto scheggiato, al forno rimasto acceso, l’unico colpevole, condannato ovviamente senza regolare processo e senza la possibilità di difesa… sono IO. La colpa sarà sempre e comunque mia. Poi ovviamente quando il vero colpevole viene fuori, pare quasi che un sorriso e un bacino sulla guancia possano ripagarmi della mia ingiusta condanna. Caro amico mio, vorrei tanto che mia madre capisse che io, a casa, ogni giorno, non è che ci sto poi così bene. Non nascondo che mi fa piacere almeno 2 giorni a settimana l’alzarmi tardi e il non fare nulla tutto il giorno. Ma dovrebbe saperlo pure lei che della noia e della routine, alla fine, ci si stanca tutti. Si, tutti, anche il suo figlio “fannullone”.

Chiusi il mio turno insaccando anche la 4 viola e la 5 rossa, per poi mettermi in difesa dietro la mia numero 1 gialla.

Lui mi rispose, essendo più grande di me di qualche anno,

che le mamme sono fatte così, che è ovvio che non ci capiscano fino in fondo e che talvolta vedere un figlio sempre seduto sul divanetto, le fa venire qualche dubbio sulla nostra effettiva voglia di fare.

Chiuse il giro giocando due ottime sponde, spingendo in un solo tiro la  9 gialla e la 13 rossa nella stessa buca, per poi appoggiare a sua volta la bianca dietro una sua palla in difesa.

Gli risposi, prendendo in mano il pallino del gioco, con un poco di frustrazione, lo ammetto,

che io devo sempre capire gli altri, ma gli altri non devono e possono mai capire me. Eppure non è nemmeno difficile da capire, cazzodiqueldiodiunaciviltàpresaacaso. Sono un ragazzo di quasi 22 anni che sta cercando di trovarsi un lavoro che DAVVERO gli serve dal punto di vista della carriera, un ragazzo che ha “prestato servizio” sul posto di lavoro di suo padre per due mesi ricevendo tante promesse dai datori di lavoro che sembrano, a posteriori, confezionate da un politico italiano qualunque. Ho passato 60 giorni lavorando otto ore al giorno e attenzione, non mi sto lamentando di questo. Ringrazio mio padre per l’opportunità e la possibilità che mi ha dato per poter imparare qualcosa a livello di scartoffie. Sono arrabbiato perchè cerco un’indipendenza economica dalla mia famiglia, non tanto perchè ne abbia bisogno, ma perchè vorrei essere libero di non dover dichiarare come spendo e cosa compro con i soldi che alla fine non sono miei. Ho voglia di sentire quella sensazione di soldi freschi appena prelevati, asciutti fuori, ma bagnati dentro, fino al midollo, dal sudore di una persona che si vorrebbe alzare presto ogni giorno, ma che purtroppo, questa voglia, gli viene affievolita da questa Italia che alla fine, piace a tutti ma non piace a nessuno. Penso a quei 60 giorni, lavorati con passione e interesse, retribuiti con il nulla più assoluto. Ne un grazie, ne un “scusa se ci siamo comportati male”, ne tanto meno 2 livre come compenso… ah… dimenticavo… benvenuto nel mondo del lavoro Lucky.

Irruenti e violenti furono i miei ultimi colpi. La 1 gialla e la 7 bordeaux finirono in buca con lo stesso suono sordo di uno schiaffo tiratoti da qualcuno che ha voglia di impartirti l’ennesima lezione di vita. Rimase la due fra me e la otto. Feci uno scavetto che, forse, non mi era mai riuscito in tutta la mia vita, una sorta di “cucchiaio di tottiana fattura” che scavalcò la nera e mandò dolcemente in buca la 2 bluastra. Il mio amico si accingeva a poggiare la sua stecca nell’apposito incastro, quasi a voler deporre le armi dopo una lunga battaglia. Mi ritrovai “tête à tête” con la numero 8. La protagonista del gioco. Poggiai la mano sopra il tappeto verde del tavolo e cominciai a far scorrere la stecca mimando il colpo che avevo in mente. Mancava cosi poco… fino a che… un suono di monetine echeggiò nell’aria. “Une bière, garçon! Grand!”. Restai basito nel vedere come una pinta di birra potesse scivolare dentro un uomo con così tanta facilità. L’uomo della slot aveva optato per l’ultimo giro. E fu vincente. Scolò la quarta birra e grattandosi la pancia ne ordinò una quinta, sbattendo le mani contro il muro per reggersi. Si stava dirigendo verso di noi e il mio amico, con un colpo di mano, buttò dentro la 8, anticipando la nostra uscita di quel tanto che bastava per evitare una spiacevole conversazione con quell’essere.

“nous avons fini, monsieur, au revoir”

Uscimmo dal caffè e ci dirigemmo nelle rispettive case, aspettando il nuovo sorgere del sole per ricominciare la rincorsa al “Prendimi-commercialista-prendimi” nella giornata successiva. Andrà meglio la prossima volta. E se andrà male, c’è sempre dopodomani!

Mamma, la realtà è un’altra.

La vita di un giovane scalpitante di ventidue anni è come una fotografia sbiadita. Vista velocemente vi racconterà che il sole splende, che la spensieratezza regna sovrana e che la monetina cade senza sforzi nella fessura del tavolo da biliardo. Ma se la vediamo con occhio diverso, con l’occhio di chi la vive, scopriamo che all’interno dell’arcobaleno vi è una battaglia senza fine che continuerà almeno finchè avremo due neuroni attivi nella testa, che ci sarà battaglia fino a che non mi ritroverò al posto dell’uomo delle slot, che ci sarà speranza finchè questa Italia rimarrà a galla, a costo di tappare le falle con le nostre stesse dita (oppure, visto che nella mia testa sono a  Parigi, da qualche testa appena ghigliottinata). Nella mia vita, vorrei tanto buttare la palla numero 8 in buca. Vorrei tanto poter essere più padrone di me stesso. Vorrei… Vorreste… Vorremmo…Mamma, la realtà è un’altra.

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Mamma, la realtà è un’altra.


Tagged: 22, 8, AFreeWord, Anni, Biliardo, Disoccupazione, Fannullone, Figlio, guerra, Interiore, lavoro, Livre, lotta, lucky, madre, mamma, Parigi, pool, Tabacco, vita

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