Nicoletta, 27 anni, era arrivata in studio da me spinta dalla madre: “Dice che ho bisogno di essere seguita da un professionista ma io non ho nessun problema“, così aveva esordito. In effetti, poiché avevo capito che non sussisteva alcuna motivazione ad intraprendere un percorso psicologico, il mio rapporto con la ragazza si era interrotto dopo le prime due sedute. Una settimana più tardi aveva chiamato Annamaria, la madre, chiedendomi di potermi incontrare.
Si lamentava del fatto che la figlia ciondolasse ancora a casa sua e che non fosse in grado di trovare un lavoro stabile. Andando un po’ indietro nel tempo, era emerso che Nicoletta aveva avuto un problema di salute intorno ai cinque anni di età e per questo motivo era stata ricoverata a più riprese in ospedale. Nonostante fosse poi completamente guarita, la madre, immaginandola più fragile dei coetanei, aveva iniziato ad iperproteggerla: prima, cercando di allontanarla da ogni possibile pericolo o non permettendole di correre con i suoi amichetti affinché non si stancasse troppo; durante il percorso scolastico, giustificando continuamente con gli insegnanti la sua mancanza di interesse per le attività didattiche o svolgendo i compiti al suo posto se Nicoletta si mostrava particolarmente svogliata. Pur non avendo mostrato grande propensione per lo studio, l’aveva spronata a frequentare un Liceo Scientifico (concluso con enormi difficoltà) e poi ad iscriversi all’Università, ma la ragazza era riuscita a sostenere solo un paio d’esami. Ultimamente Annamaria aveva cominciato a redigere il curriculum della figlia e a distribuirlo personalmente alle agenzie interinali, “ma lei non mette alcun impegno nel trovare un lavoro e sistemarsi“, si lamentava. Perché mai avrebbe dovuto, mi chiedevo? Nicoletta sostava a casa dei genitori servita e riverita, sgravata da qualsiasi responsabilità, cosa avrebbe dovuto spingerla a lasciare il nido?
Vi ho raccontato questa storia perché Annamaria incarna dentro di sé molte delle caratteristiche della madre pattugliatrice, quella che ha un solo obiettivo di vita: preoccuparsi del proprio figlio.
Ma preoccuparsi è davvero sinonimo di prendersi cura?
La mamma pattugliatrice crede di essere un buon genitore se riesce a fare da cuscinetto tra il proprio bambino e il mondo, evitando che questi possa in qualche modo soffrire o venire deluso dalla vita. E’ la madre che non espone direttamente il figlio alle esperienze del quotidiano, ma le filtra in modo da mostrargli solo quelle soddisfacenti e appaganti. La costante preoccupazione è per lei sintomo di grande amore e la troveremo spesso a chiedersi dove sia suo figlio (indipendentemente dalla sua età anagrafica), cosa stia facendo, se sta bene, se ha mangiato abbastanza, se è abbastanza coperto d’inverno o troppo sudato d’estate…e così via. E’ la mamma che, in preda all’ansia, costruisce intorno alla sua prole una robusta campana di vetro e non concepisce altra modalità, se non il controllo, per trasmettere affetto. Osserva dall’alto come un falco la vita del suo cucciolo ed è pronta a buttarsi in picchiata su ogni potenziale pericolo che ne minacci l’incolumità. Per questo motivo deve vigilare attentamente su ogni cosa, essere al corrente di tutto perché nulla le sfugga e possa essere pronta a correre in soccorso del suo “bambino”. Ho usato le virgolette perché la mamma pattugliatrice non è in grado di fare un passo indietro, di comprendere che il neonato che stringeva tra le braccia sta diventando adulto e può affacciarsi autonomamente al mondo. Anziché allenarlo a camminare con le sue gambe e a badare a se stesso, preferisce sostituirsi a lui, risparmiargli qualsiasi frustrazione e lo fa con piacere perché niente la rende più felice che occuparsi della sua creatura.
Stiamo allora parlando di una mamma inadeguata? Assolutamente no. E’ una mamma che ama nel suo modo speciale ma che non è in grado di modificare il suo atteggiamento in relazione all’evoluzione del proprio figlio. E nulla è più deleterio della rigidità!
E’ naturale che un bambino alla nascita sia completamente dipendente dalla madre: è lei che lo deve nutrire, cambiare, comprendere i suoi bisogni e le sue necessità. Ma l’essere umano è “programmato” per diventare autonomo e raggiungere la sua realizzazione personale e può riuscirci anche accettando l’esistenza di situazioni spiacevoli o pericolose ed imparando ad affrontarle. Ma le mamme (e in special modo le pattugliatrici), pur sapendo di aver dato alla luce un essere vulnerabile e mortale, vorrebbero poter ignorare questo aspetto e illudersi di riuscire a preservarlo da ogni dolore.
E i figli come reagiscono alle mamme pattugliatrici? Solitamente in due modi:
- scappando, per realizzare il loro bisogno di autonomia;
- rimanendo “cuccioli” tutta la vita perché convinti che il mondo è un posto troppo pericoloso per affrontarlo da soli e perché si sentirebbero tremendamente in colpa nel lasciare il nido (il genitore realizzerebbe di non essere più indispensabile).
Si può smettere di essere mamme pattugliatrici? Continuate a seguirmi, lo scopriremo insieme! Ma intanto raccontatemi, voi che mamme siete?
Fonte:
L. Scarpa, Tranquille dentro – Il piccolo talismano della mamma, 2012 Milano, Ponte alle Grazie