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"MAMMUTH" un film di Benoît Delépine e Gustave Kervern

Creato il 16 dicembre 2010 da Peterpasquer

Il rombo di una moto e un paesaggio che veloce scorre davanti ai nostri occhi. Un paesaggio che non hai nemmeno il tempo di riconoscere ché un altro ha già preso il sopravvento. E poi un altro e un altro ancora, diverso e simile al precedente. Una corsa verso un dove ipotetico, tanto rumore nelle orecchie e una realtà che non si riesce mai ad afferrare. E' così che inizia “Mammuth”, di Benoît Delépine e Gustave Kervern.

Dopo vent'anni di impiego presso un mattatoio per suini, Serge Pilardosse (GérardDepardieu) va finalmente in pensione. Tutto filerebbe liscio se non mancassero, ai fini del conteggio retributivo, alcuni certificati attestanti i contributi versati durante i lavori svolti prima dell'ultimo impiego. Cosa fare però se sin dall'età adolescenziale ha sempre lavorato in nero? Sua moglie ha pochi dubbi in proposito. Preoccupata dall'ingombrante inattività del marito tra le pareti domestiche quanto dall'idea di un futuro economico peggiore del presente, lo spinge a rintracciare i vecchi datori di lavoro per provare a recuperare i documenti necessari al calcolo della pensione. In groppa alla sua MunchMammuth del '72, Serge attraversa allora buona parte della Francia compiendo un'impresa eroica e rivoluzionaria che lo avvicina al vecchio AlvinStraight di “Una storia vera” di Lynch. Con una differenza. L'obbiettivo finale in questo caso è presto dimenticato.

Sin dalle prime battute “Mammuth” sembra un dramma alla maniera del primo Loach o, per restare in territorio francofono, sulla falsariga di quelli dei fratelli Dardenne. Il mondo del lavoro da un lato, vicissitudini familiari dense di sacrifici e incomprensioni, denuncia e impegno civile. Tale sensazione viene però mitigata quando la storia comincia a inanellare gag e scene paradossali indossando, su quelli del dramma, i panni di una comicità semplice e scomposta che trova in GérardDepardieu, l'interprete perfetto. Il suo Serge Pilardosse, come il mammuth del titolo, è davvero una specie di elefante estinto, lento nei movimenti e nel cervello ma dotato di una memoria emotiva pesante, ingombrante.

Ne abbiamo un indizio quando al cospetto della sua vecchia moto, Serge avverte (e noi vediamo) la presenza di una donna insanguinata (la glaciale e sempre splendida IsabelleAdjani) alle sue spalle. Un fantasma, una scheggia horror piantata con forza nel corpo di un racconto iperrealista, un'incrinatura farcita di interrogativi: chi è costei? Perché appare giusto adesso che Serge ha ripreso la sua moto? E perché Serge ha abbandonato in garage la sua MunchMammuth per così tanto tempo? Se la spiegazione dataci da una vita lavorativa e affettiva sedentaria ci sembra poco esaustiva allora è in un possibile rimosso che va cercata la verità. Eppure il passato di Serge è solo una fitta sequela di decisioni prese un po' per caso e un po' per esigenza. Non nasconde nulla di mitico. Se il look e l'espressione bolsa ricordano il wrestlerinterpretato da MickeyRourke nell'intenso film di Aronofsky e anche vero che poco di quel personaggio appartiene al nostro caro mammuth. Serge non ha alcunché di glorioso da ricordare davanti allo specchio. Più che un wrestler è un piccolo Lebowsky senza il contesto grottesco ed esplosivo dei Coen, un bombo morettiano in chiave apolitica e apolide o forse - più semplicemente - un personaggio unico ma come tanti. Dimenticato e, al contempo, indimenticabile

La sceneggiatura di Delépine e Kervern gioca la carta della frammentarietà come per ribadire nella forma parte del contenuto, giacché è proprio l'impresa donchisciottesca di recuperare i frammenti sparsi del suo passato lavorativo che spinge Serge alla partenza. Ed è proprio un puzzle il regalo di commiato che i colleghi del mattatoio gli consegnano nella più completa indifferenza. Nemmeno a dirlo: né l'uno (la missione), né l'altro (il puzzle) saranno mai portati a termine.

La narrazione si scompone così in capitoli qualche volta forzati, altre volte illuminanti, disegnando comunque il ritratto di una Francia cinica, precaria, nascosta (ma poi mica tanto...) costellata da personaggi amorali, squallidi, sconfitti, inaciditi, tutti accomunati dall'idea che Serge sia, dopotutto, uno stupido. Tutti meno Solange. La giovane nipote ritardata è infatti l'unica a vedere nello “zio patata” (così chiama affettuosamente Serge) un artista, un talento invisibile agli occhi degli altri. E' la sindrome di Gulliver: gigante a Lilliput e piccolo a Brobdingnag, dove Brobdingnag è la norma e Lilliput l'eccezione. Ma Serge è anche altro. Sarà anche il primo degli idioti e l'ultimo dei poeti possibili, ma è soprattutto un uomo che ama, che sente con tutto se stesso. Ed è qui che la sceneggiatura alza il tiro. Accanto al racconto dei personaggi, “Mammuth” propone dei flashback uditivi legati a lontani frammenti di conversazione. Non più il pensiero in voce off del personaggio, bensì gli echi di un ricordo ancora vivo. Il germe da cui è scaturito il presente in cui gli tocca vivere. E' il caso di Serge quando ricorda l'ultimo dialogo con la fantomatica donna che, ancora imbrattata di sangue, non lo lascia in pace: la passione, l'appuntamento e l'incidente mortale. L'amore perduto e il senso di colpa per essere rimasto ancorato ad una vita che ha perso di senso.

Ed è anche il caso di Catherine, sua moglie (una titanica YolandeMoreau), quando durante una pausa di lavoro, fissando il vuoto dell'ipermercato, rammenta il primo incontro con suo marito. Anche lei, pur restando ferma nella sua cittadina, compie un viaggio: dalla difficile sopportazione dell'ingombrante mammuth alla riscoperta della sua assenza, della sua importanza. A tal proposito, l'abbraccio finale tra i due è quanto di più commovente ci si possa aspettare. Un “ti amo”, quello di Serge, come da tempo al cinema non se ne sentivano. Vero e toccante, malgrado ci arrivi di spalle e nell'angusto spazio del bagno di casa. Del resto, per tutto il film, la regia di Delépine e Kerven non concede nulla allo spettacolo; anarchica, anti-borghese, si guarda bene dal piacere a tutti i costi. Proprio come il personaggio di Serge Pilardosse. Ai margini della società e ai margini di queste inquadrature sgranate, sfuocate, storte ma sempre coerenti e funzionali con il racconto in atto. Una messinscena asciutta e lucida come la poesia che Serge consegna infine all'esame di maturità. Il riassunto in versi di un viaggio cominciato parecchio tempo prima:

Un giorno un uccellino mi ha sussurrato

che per tutta la vita ho solamente lavorato,

tutta la vita a contare le ore,

tutta la vita a versare sudore.

Quel che in inverno riuscivo a guadagnare

lo spendevo in estate per viaggiare.

Anno dopo anno, sempre mal gestite,

sono queste le ferie retribuite.

Ho lavorato come un dannato

per dimenticare tutto il passato,

ho lavorato e mai ascoltato il mio cuore

solamente per conservare il mio amore.

Ora finalmente vi faccio una confessione:

per me il lavoro è stato un'ossessione

ma grazie alle mie muse

so che ormai il mio solo lavoro

sarà difendere l'amore

come il mio unico tesoro."

(Serge Pilardosse)


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