Altro che legge elettorale, la minoranza Pd non si capacita di avere perduto il congresso nel 2013
Pubblicato: 16/04/2015 – Fabio Avallone (Huffington Post)
È questa la verità. La battaglia che si sta combattendo a botte di “è una questione vitale per il futuro dei nostri figli” e “ne va della democrazia del nostro paese”, in realtà, non è che la disperata continuazione per le vie parlamentari del congresso perduto nel 2013. Bersani, Fassina, Gotor e Bindi se ne infischiano della legge elettorale. Se ne infischiano da 10 anni, da quando, cioè, il centrodestra approvò il Porcellum con lo scopo di inquinare i pozzi prima delle elezioni del 2006. Da allora la legge elettorale, nonostante le decine di volte in cui il presidente Napolitano è intervenuto per chiederne la modifica, non è mai stata tra le priorità di costoro.
Anche dopo la “non vittoria” del 2013, dopo il pasticciaccio sull’elezione del presidente della Repubblica e dopo le parole durissime di Napolitano (che definì “Imperdonabile la mancata riforma della legge elettorale del 2005“), il governo Letta, espressione dell’accordo tra “la ditta” e l’allora Pdl non trovò nulla di meglio da fare che rinviare ad libitum la questione, fino all’intervento della Corte Costituzionale che, finalmente, dichiarò incostituzionale il Porcellum.
Renzi, al contrario, fa sul serio. Ha inserito sin dal primo giorno le riforme, tra cui quella elettorale, tra le priorità del suo governo e sta perseguendo l’obiettivo con costanza e determinazione. Proprio il fatto, ribadito ieri dal presidente del Consiglio, che la vita di questo governo è legata a doppio filo alla riforma elettorale, la rende il terreno ideale di scontro da parte della minoranza Pd. Ancora increduli davanti al risultato del congresso del 2013 (67% Renzi, 18% Cuperlo, 14% Civati), i principali protagonisti del vecchio Pd cercano il modo di restituire il colpo e la possibilità di sfruttare la composizione del Parlamento (eletto con il Porcellum, guarda un po’) per silurare il governo deve apparire loro come un’occasione irrinunciabile.
Bene ha fatto, quindi, Matteo Renzi a scoprire le carte. Dopo oltre un anno di iter parlamentare e dopo aver accolto alcuni dei rilievi proprio della minoranza Pd, per il presidente del Consiglio è giunto il momento di chiudere la partita della legge elettorale. Renzi sa che la chiave del suo successo sta nella rapidità e nella efficacia dell’azione del Governo. Il ping pong infinito tra Camera e Senato non mira a migliorare la legge (nel cui merito non entrerò, ma che indubbiamente riceve i rilievi della Corte Costituzionale e supera la logica bloccante del Porcellum), ma ad indebolire la figura di Renzi agli occhi dell’opinione pubblica, per poter dire, alla prossima occasione, che, in fondo, anche lui è come gli altri.
Legge elettorale o voto, quindi, appare l’unica strategia possibile e credibile del presidente del Consiglio. Ora che la posta in palio è chiara a tutti, personalmente non credo che la minoranza Pd avrà il coraggio di andare fino in fondo. Ma se dovesse averlo e, dunque, se il governo dovesse dimettersi, sarebbe una clamorosa vittoria proprio per Renzi che avrà dimostrato di tenere talmente alle riforme da metterle davanti sin anche alla sopravvivenza del proprio governo.
L’unico risultato che otterrebbe la minoranza Pd, al contrario, sarebbe quello di iscrivere il proprio nome nell’albo d’oro dei nemici delle riforme, come accadde già a Rossi e Turigliatto con il secondo governo Prodi.
(Sono cose che penso anch’io, ma che non saprei dire così bene).