Esiste davvero qualcosa che possa lasciare traccia, in questa eterna confusione del mondo? Un'azione, un gesto umano in grado di modificare il corso delle cose? Si può agitare l'acqua di un lago con la forza delle nostre dita? Il tempo di una singola vita umana non permette di misurare il risultato di una battaglia, ma non per questo perde senso lottare. È così, monsieur, è vero? Potrebbe chiederlo al tassista. Potrebbe aprire il finestrino e domandarlo ai passanti, gridare Le idee, almeno le idee, ci sopravvivono? Forse anche i sentimenti.
Volli, fortissimamente volli questo libro. Perché dell'autore qualche tempo fa avevo già letto, e apprezzato, Dove eravate tutti. Perché poi un giorno ho letto questo post di Pippo Civati che mi ha ulteriormente incuriosita. Perché ho visto un booktrailer molto molto bello.
Non è stato casuale insomma che lunedì, entrando in libreria, io ne sia uscita con Mandami tanta vita. Era proprio quello che volevo. Quello che stavo cercando. Spesso quando da un libro mi aspetto grandi cose finisce che poi resto delusa, ma non è stato questo il caso. Mandami tanta vita, finalista al premio Strega di quest'anno, è bellissimo. Quindi, anche se è l'unico finalista che ho letto, ho deciso che tifo per lui. Per Piero e le sue idee, per il suo pensiero, per il suo amore, per il suo esilio, per i suoi venticinque anni mai compiuti; per Ada, la sua mandante di vita; per Moraldo, per la sua indecisione, per la sua incertezza, per le sue fragilità; per Carlotta e la sua libertà; per Torino, che sembra una città davvero magica tra queste pagine.
È proprio a Torino che, negli anni venti, si sfiorano le vite di due ventenni molto diversi tra loro.
Da un lato c'è Piero, un ragazzo bruciato dalla sua passione per la cultura, magro magro, con gli occhialetti sul naso, Piero che ha ventiquattro anni ed è già stato fondatore di varie riviste, ha perfino aperto una casa editrice che, tra le altre cose, ha pubblicato anche "Ossi di seppia", la raccolta di poesie di un nuovo e promettente poeta.
Dall'altro lato c'è Moraldo, che osserva Piero a debita distanza, gli invidia la forza, il coraggio, la vivacità, la capacità di dire sempre quello che pensa, di sapere da che parte stare, di essere qualcosa. Moraldo non è niente di tutto questo, perciò la prima sensazione che prova, quando sfiora Piero, è di forte antipatia.
Hanno la stessa età, eppure sembra che ci corrano secoli tra i due. In comune hanno solo umili famiglie d'origine che hanno fatto grandi sacrifici per farli studiare. Entrambi vanno all'università. Moraldo non è indietro con gli esami, ma con le convinzioni sì. Piero nemmeno con quelle. Brucia di passione, di cultura, di idee, di parole. Ha una fretta immensa di conoscere, scrivere, pubblicare. Una fretta immensa di imparare mille cose, come se sentisse di non avere poi tanto tempo a disposizione per dimostrare il suo valore. Agli occhi di Moraldo il Giovane Editore appare come un esempio da seguire, nonostante la sua apparente spocchia, nonostante la sua grande sicurezza, forse eccessiva per i suoi pochi anni, nonostante sembri che sappia già tutto quello che c'è da sapere. Moraldo darebbe qualsiasi cosa per avere in sé un pezzettino di Piero, lo guarda da lontano, lo segue, lo ammira. Sa quasi tutto di lui, tanto che un giorno decide di scrivergli una lettera per proporsi come collaboratore nella sua rivista. Era il tempo delle lettere quello lì. Moraldo attende la risposta di Piero, ma niente, non riceve nulla. Non sa che il suo compagno d'università, divenuto padre da un mese e mezzo, ha dovuto lasciare l'Italia fascista. È andato da solo a Parigi, per ricostruire una casa editrice all'insegna della libertà, quella libertà che l'Italia non sa più dargli. Piero è giovane ed è pieno di idee, non è certo il tipo di persona che si tappa la bocca se questo è ciò che impone il potere.
Il Piero della storia non è un Piero qualunque, è Piero Gobetti, il giovane intellettuale antifascista morto a ventiquattro anni in una clinica francese, in esilio. È il Piero Gobetti che pubblica uno sconosciuto Montale. Un Piero Gobetti che, per come viene raccontato in questo libro, sarà sicuramente felice di sapere che le idee, quelle sì, sono sopravvissute.
Piero dunque è un personaggio reale, affiancato (ammirato e spiato più che altro) da un coetaneo frutto della fantasia dell'autore, inventato eppure estremamente reale nelle sue caratteristiche. Di Piero Gobetti ce n'è stato solo uno, di Moraldi chissà quanti. Piero è un energico combattivo, pazzamente innamorato della famiglia che ha costruito così giovane, di Ada, di suo figlio Paolo. È uno per cui è probabile che avrei avuto la stessa prima impressione di Moraldo: antipatia. Di fronte alla sua sicurezza avrei storto il naso e pensato: ma chi si crede di essere questo qui? L'avrei invitato a scendere dal piedistallo, minimo. Eppure aveva buone motivazioni per essere lì, un gradino sopra i Moraldi. Piero non girava la testa dall'altra parte, lavorava quattordici ore al giorno, faceva nascere i libri e scopriva perfino Montale. Era tanto impegnato pubblicamente quanto nel riuscire ad apparire senza la benché minima incertezza o fragilità.
Spontaneamente Moraldo ha conquistato immediatamente la mia simpatia. Perché Moraldo lo sono stata anch'io, lo sono ancora per molti aspetti. Ho le mie idee, non sono indietro con le convinzioni politiche, ma con tutte le altre, probabilmente, sì. Ho la mia idea di giusto e sbagliato, per il resto però sono Moraldo, affezionata alle mie confortanti abitudini, pronta a invocare un piccolo evento per produrre un grande cambiamento nella mia semplice vita. Timida, in disparte, un passo indietro forse, più propensa a guardare gli altri da fuori e a immaginare le loro storie, piuttosto che in grado di andare lì nel mezzo, buttando in faccia a uno sconosciuto un sorriso e una parlantina sciolta. Come Moraldo ho regalato il mio cuore a chi non lo meritava, come Moraldo dirigo splendidi film d'amore esclusivamente mentali. Come Moraldo ammiro profondamente quelli che sanno con certezza chi sono e che cosa vogliono essere, in futuro.
Non si sa che cosa ne sarà di Moraldo dal momento in cui apprende della morte del suo Giovane Editore. A me piace immaginarlo con una matita in mano, intento a spiare gli altri per far diventare i loro volti caricature. Lo immagino ancora silenzioso e timido, ma capace di scegliere da che parte stare. Magari sarà con una donna più giusta per lui di quanto lo fosse Carlotta. Carlotta se la terrà stretta nel cuore, la ricorderà come una delle coincidenze più belle della sua vita, consapevole però che l'amore è un'altra cosa. Me lo immagino con un figlio col nome scelto da lui: Piero.
Proverà a non diventare mai uno di quei padri che sorridono agli entusiasmi, ai sogni dei figli, che alzano le spalle e li trattano da illusi. Infinite volte è capitato anche a lui di essere liquidato come un ingenuo, con quel paternalismo, con il disincanto di chi ha già perduto la propria battaglia. Vorrebbe, in questo, non diventare mai come gli altri, come gli adulti.
Sono davvero felice di aver letto questo libro. Per vari motivi.
- Perché ho conosciuto Piero Gobetti, non solo di nome ecco. Adesso so che aveva una moglie con cui si scriveva in russo, quando erano segretamente innamorati, per non far capire ai loro genitori che cosa li univa. Perché il loro amore è davvero forte, viscerale, totale. Così giovani e così maturi, così lontani dai ventiquattrenni di oggi.
- Per l'impacciataggine e l'inesperienza di Moraldo, che fanno tenerezza.
- Perché bisogna restare politici nel tramonto della politica.
- Perché ognuno di noi ha le proprie persone da ammirare, persone da cui prendere esempio o più sterilmente solo da invidiare.
- Perché a volte anch'io mi chiedo quando finirà la giovinezza. Ci sarà un giorno preciso? Me ne accorgerò davvero? Quand'è che si diventa grandi sul serio? Nel mio immaginario ho sempre posto un'asticella ideale a venticinque anni, ma so che poi sarà tutto più complesso e più sfumato di una cifra diversa nella nostra età.
- Perché le coincidenze mi affascinano enormemente. E nel libro ce ne sono tante, a partire da quella valigia scambiata per un errore che trascina Moraldo a Parigi, dove non ritroverà l'amore, come lui sperava, ma, ancora casualmente, incrocerà di nuovo Piero, poco prima della sua morte prematura.
- Perché mi piace la storia italiana e nei due libri di Paolo Di Paolo che ho letto l'ho sempre trovata.
- Perché l'ho trovato un libro molto poetico e dolce.
- Perché credo che tutto sommato sia un inno alla giovinezza, che ti fa venire voglia di dire: ok, non sarò certo un Piero Gobetti, ma magari potrei essere più di un Moraldo spettatore delle vite altrui incapace di vivere la propria. Una via di mezzo. Niente di eccezionale, ecco, solo una persona in grado di esprimere al cento per cento se stessa, senza troppi timori, tremori, sudori, paure. Essere se stessi, nient'altro.
- Perché l'ultimo periodo mi ha fatto venire i brividi. Nessuna parola può esprimere meglio lo stato d'animo di questi miei giorni.
Sentire di non aver fatto abbastanza per evitare ciò che comunque non è possibile evitare, avere per un minuto, all'improvviso, la sensazione che non sia accaduto niente, che si può aspettare anche chi non può tornare, che si possa fare soltanto questo: aspettare, nelle stanze rimaste vuote, intoccabili, congelate, fino a che piomba in un'ora del pomeriggio tutto insieme il peso dell'assenza - devastante, lugubre, senza speranza - o dentro notti infinite, tormentate e nere come questo inchiostro, fino a che con ogni atomo di noi, a una profondità che ci toglie il respiro, sentiamo l'irrimediabile, e che tutto questo è reale, reale come la vita che continua, mentre di un uomo si è costretti a dire era, è scomparso - e una parte di noi con lui.